13ª domenica tempo ordinario Mt 10,37-42
La croce, germoglio di vita nuova –
a cura di Don Luciano Condina –
Il ritornello «non è degno di me», reiterato in modo quasi ossessivo nei primi versetti del vangelo di questa domenica e riferito a chi ama padre, madre, figlio, figlia più di Gesù, e a chi non prende la propria croce per seguirlo, fa parte del linguaggio senza compromessi, quasi iperbolico e secco, che non lascia scampo sulla radicalità necessaria per essere discepoli di Cristo.
La dignità esprime il valore di una persona e tocca la sua natura più intima; quella di ogni uomo è data dall’essere creato a immagine e somiglianza di Dio. È anche un concetto nobiliare: pensiamo ai dignitari di corte; qui, però, il termine suscita altissimo timore reverenziale accostando le nostre povertà alla figura di Gesù. Chi mai può essere degno di stargli vicino? Il suo sembra quasi un discorso altezzoso, che intende indicare l’altissima ascesi necessaria per essere suoi discepoli.
Non è così. Come diceva il curato d’Ars a chi non si sentiva degno di ricevere il corpo di Cristo: «È vero che non ne siete degni, ma ne avete bisogno!».
Essere “degno” può anche intendersi come adatto a condividere uno spazio; si dice “non sei degno di stare qui”, a qualcuno che non ha determinate caratteristiche morali, di parentela o professionali. Gesù non identifica i suoi discepoli in asceti insensibili e cinici, bensì spiega quali siano le prerogative necessarie per potergli star dietro senza desistere lungo il cammino.
Una chiave importante sta nel versetto «chi non prende la propria croce e non mi segue non è degno di me» (Mt 10, 38). Noi pensiamo a questa croce come l’insieme di difficoltà, dolori e amarezze che la vita ci riserva; queste sono le croci che la vita ci affida, ma non sono le nostre “proprie”. La “propria” croce è soprattutto l’insieme dei propri limiti, delle proprie debolezze irrisolte, dei propri vizi e difetti.
Allora, per cominciare a seguire Gesù, non è necessario risolvere la “propria” croce, dunque essere già santi: l’unico mezzo che abbiamo per uscire dalla nostra croce – il nostro peccato – è proprio seguirlo. Matteo, fino a un istante prima della chiamata, era “il pubblicano”; una volta chiamato, prende la sua croce di pubblicano e sarà questa sequela a far sì che Gesù trasformi il pubblicano in santo. Un cristiano non è migliore di un non cristiano, ma è reso migliore da Cristo come frutto della sequela.
L’unico che non ha portato la propria croce tra gli apostoli è stato Giuda, l’iscariota, il quale si è lasciato schiacciare dalla croce di orgoglio maturato dall’aspettativa delusa di una falsa idea messianica. Alcune croci non lasciano scampo: se non le affidi a Cristo, ci schiacciano.
Ci sono poi – come dicevamo – le croci che la vita ci riserva, e quanto sono inaspettate e imprevedibili! Esse hanno uno scopo fondamentale: farci lasciare la vita vecchia per trovare la nuova (Mt 10,39). La vita vecchia è quella dell’uomo animale, che vive preservando il proprio istinto di sopravvivenza, affettiva e materiale; terminerà con la morte e verrà indubitabilmente persa da tutti. La vita nuova è la vita che fa entrare nella Fede in Dio, nella relazione con Lui, nutrendoci di Speranza – che è una virtù teologale e non un semplice #andràtuttobe ne – e facendoci diventare Carità. Per entrare in questa vita nuova bisogna necessariamente passare per la croce che annichilisce, toccare con mano la propria insufficienza, gridare al Signore il proprio dramma e sperimentare il suo celeste sostegno.
Una volta sperimentato il suo sostegno, tutto il resto è noia.