26ª domenica tempo ordinario
don Luciano Condina commenta il Vangelo di Mc 9,38–43.45.47-48
I cristiani non sono élitari né discriminanti
«Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva» (Mc 9,38).
In questa affermazione di Giovanni è racchiusa la grande tentazione esclusivistica che attanaglia regolarmente le realtà della vita ecclesiale, la quale, per definizione, dovrebbe essere invece vita di comunione per eccellenza. Sembra che all’apostolo non interessi il fatto che costui lavorasse con successo per il regno di Dio, bensì che non appartenesse alla loro cerchia, al loro gruppo. È il tema dell’esclusività, dell’élitarismo, che preferisce gridare e affermare i propri privilegi piuttosto che andare incontro all’altro.
Questa parola del vangelo deve urgentemente destarci e scuoterci proprio in questo periodo storico, in cui l’odio tra le parti è sotto gli occhi di tutti.
La durezza e la severità della risposta di Gesù, poco dopo, deve far riflettere: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa una macina da mulino e sia gettato nel mare» (Mc 9,42).
I piccoli che hanno fiducia in lui sono i credenti i fragili, i semplici, forse ancora acerbi nella fede e devono essere protetti a tutti i costi.
Gesù prosegue, durissimo, nell’invitare a tagliarsi una mano, a tagliarsi un piede, a cavarsi un occhio se ciò è motivo di divisione, di inciampo alla comunione. Il termine skandalon in greco indica l’“inciampo”, lo scontro, la contrapposizione. Creare scandalo, dunque, assume il significato di creare contrapposizione, rivalità, appartenenze settarie privilegiate. Allora, piuttosto che escludere qualcuno tagliati una mano tu; piuttosto che dire a qualcuno “sei fuori”, cavati un occhio o tagliati un piede.
Questa parola che può apparire iperbolica – e la scrittura spesso lo è – in realtà non lo è affatto, perché Gesù, sulla croce, farà esattamente ciò che afferma in questo vangelo: piuttosto che perdere e allontanare qualcuno, si fa inchiodare le mani e i piedi; piuttosto che escludere qualcuno dalla salvezza, fa passare sul proprio corpo tutta l’atrocità possibile e immaginabile.
Farsi colpire nella carne pur di non perdere l’altro è una legge dell’amore. Non si diventa padri sul serio se non pagando con la propria vita la felicità dei propri figli. Non si diventa madri se non spendendo il proprio sangue per i figli. Tagliarsi un arto è dunque simbolo del tagliare quella parte di noi che non appartiene alla comunione, senza la quale possiamo generare vita e diventare fecondi nell’amore.
Gesù si scaglia contro lo spirito di contrapposizione, vero demone che distrugge la comunione, anche nelle famiglie e nelle realtà comunitarie ecclesiali più fiorenti. Pensiamo infatti a quante diffidenze reciproche spesso serpeggiano all’interno stesso della Chiesa fra i modi differenti di vivere i carismi, ad esempio nelle diversità dei movimenti ecclesiali.
Se la forza di un movimento è il forte senso comunitario, per contro, la sua fragilità è il rischio di settarismo, che esclude chi non vive il vangelo secondo il carisma proprio di quel movimento.
Oggi abbiamo una società tutta centrata sulla propria singola vita, sulla propria zona di sopravvivenza; così si determina la solitudine. Senza essere capaci di perdere se stessi non si trova l’altro, non si trova e non si crea la comunione.
Sulla croce Gesù rompe questo terrore che noi abbiamo di perdere la nostra zona di sopravvivenza e ci apre alla vita, ci apre al rapporto con gli altri, ci apre alla verità.