28ª domenica tempo ordinario Lc 17, 11-19

 
 

Gesù possa guarirci e salvarci –

a cura di Don Luciano Condina –

Nel vangelo di questa domenica incontriamo i dieci lebbrosi guariti da Gesù, ma uno solo di essi torna a rendere gloria a Dio, il samaritano. La lebbra, nell’Antico Testamento, è l’immagine della solitudine, dell’esclusione, della lontananza dalla comunità fraterna e dalla società. Le “lebbre” sono le cose che ci escludono, ci tengono lontani dagli altri, ci fanno soffrire e ci fanno sentire diversi: ognuno può trovarne di proprie, perché siamo tutti un po’ storti e un po’ malfatti, esteriormente e interiormente. Spesso incontriamo persone molto tristi per qualche avvenimento doloroso: vivono solitudine, condizioni dure, precarietà economica ed esistenziale e non riescono a vedere altro punto che quella sofferenza, centro dell’essere; pensano che risolvendola sia risolto tutto e che la vita sia tutta lì in quel punto, in quella zona mancante. Questa è la trappola di nove lebbrosi su dieci che, una volta guariti, pensano di essere arrivati alla meta. All’unico che torna a rendere gloria a Dio Gesù risponde: «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato» (Lc 11,19).

Quindi abbiamo nove guariti… e un salvato! Tra guarigione e salvezza c’è una differenza abissale. La salvezza è molto più che la salute: è aver trovato il Signore, aver il punto di riferimento della vita che va verso il bene e non a casaccio. Un guarito sta bene fino al presentarsi della prossima malattia; un salvato conserva la pace del cuore anche nella malattia terminale. Questo dipende dalla gratitudine, dall’aver accolto il vero segno dei benefici ricevuti. Quanta ingratitudine esiste nel mondo, anche nella nostra quotidianità. È curioso che l’unico a ringraziare Gesù sia uno straniero. Questo dato è molto importante perché, di fatto, lo straniero è colui che vive tutto come qualcosa che non gli spetta in quanto straniero. Per avere il cuore pieno di gratitudine bisogna mantenersi stranieri, ossia persone sorprese di quello che ricevono. Noi abbiamo spesso la tendenza a banalizzare tutto, a rendere tutto ovvio, a considerare tutto acquisito e posseduto. Tante volte, solo quando perdiamo una cosa ne capiamo il valore; solo quando un arto ci fa male capiamo quanto è bello avere quell’arto; quando una cosa ci viene sottratta capiamo la grazia di averla. Per questo dobbiamo mantenere un’anima lucida, mantenerci stranieri, sorpresi della parola che Dio ci rivolge, della grazia di poter vivere la messa e di tutto ciò che la Provvidenza ci ha donato lungo il cammino.
Quando due coniugi si sposano, nei primi tempi sono molto attenti l’uno all’altro, poi diventano abitudinari e, nella routine, iniziano a mancarsi di rispetto, a non essere più premurosi l’uno verso l’altro; poi magari succede che uno dei due si trovi in pericolo di vita, allora ci si rende conto di quanto sia bello avere l’altro. Per questo la nostra esistenza è precaria, per questo Dio ci artiglia spesso con cose che ci fanno tremare: per farci restare stranieri e vivere la relazione con Lui.

«Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10). Ringraziamo Dio anche per le insicurezze che ci mantengono stranieri, sorpresi e grati di quello che abbiamo, perché niente ci è dato in possesso definitivo. Il cristiano è un pellegrino che sa di non stare a casa propria e di essere diretto verso una meta. Se dimentichiamo di essere pellegrini ci installiamo, perdiamo la gratitudine e dimentichiamo la bellezza della meta. Possa il Signore farci dono di svegliarci nella nostra reale condizione, di accettare quello che è verità: tutto è grazia, tutto è dono, e noi lo possediamo perché Egli è magnanimo, non perché ce lo meritiamo.