30ª domenica tempo ordinario Lc 18, 9-14
Facciamo in modo che Dio ci trovi –
a cura di Don Luciano Condina –
Questa domenica il vangelo ci propone le preghiere del fariseo e del pubblicano, «fermatosi a distanza» (Lc 18,13). Egli sta più indietro rispetto al fariseo, perché all’interno del tempio esisteva una sorta di “teologia dello spazio”: la zona dei pagani, la zona degli israeliti, la zona dei leviti e quella dei sacerdoti, per arrivare fino al cuore del tempio ossia il Santo dei Santi, in cui solamente l’uomo più integerrimo, il sommo sacerdote, poteva entrare una volta all’anno.
Il fariseo prega usando molte parole, descrivendo se stesso e la sua vita; il pubblicano dice solo: «abbi pietà di me (v. 13). Il primo vanta azioni perfette e pure: digiuna due volte la settimana e paga le decime di quanto possiede; il secondo, invece, vede solo il proprio peccato e implora misericordia.
Il fariseo parla di se stesso: la sua non è una preghiera, perché fondamentalmente è centrato sulla sua realtà, su ciò che è e che non è, su ciò che fa e che non fa; ringrazia Dio, ma lo fa per un possesso, quello del proprio ego che è bello, ammirevole, presentabile. Il grottesco di costui, a parte il vanto inopportuno e sgradevole, è che in fondo non sta chiedendo niente: la sua è pura autocelebrazione priva di preghiera, perché parte da sé e resta a se stesso.
Il pubblicano invece non osa alzare gli occhi al cielo: significa che per lui il cielo è una presenza, non uno strumento da usare in modo utilitaristico; di fronte al cielo si pone in un atteggiamento contrito: si batte il petto, invoca perdono e misericordia, chiede di essere trasformato affinché si possa realizzare per lui quello che si celebrava nel giorno del gran perdono – lo iom kippur – il giorno della copertura del peccato; chiede quindi di ritornare nell’alleanza e di essere tolto da quello che sta vivendo. Nella sua preghiera riconosce che solo Dio può fare qualcosa di buono: avere pietà. Allora la preghiera diventa relazione con Dio, e non è una sottolineatura della propria identità, non è autocontemplazione.
Il fariseo è simile a quelle persone che, quando ti incontrano, parlano sempre di se stesse esternando il proprio narcisismo, magari per rimestare la propria incompiutezza esecrando anche i propri errori; è simile a quelli che ti fanno una domanda e mentre stai rispondendo ti interrompono cambiando discorso. «Io non sono come gli altri» (Lc 18,11), afferma il fariseo: ha bisogno di un paragone per trovare qualcuno che stia peggio.
Evagrio Pontico (monaco cristiano, scrittore e asceta greco del IV secolo), nel trattare i vizi capitali, spiega che «la radice di ogni ira è ritenersi giusti» e per ritenersi giusto un uomo deve confrontarsi con gli altri. Chi invece non si ritiene tale si confronta con Dio.
Spesso nella preghiera andiamo avanti faticosamente, senza gioia e senza frutto, perché restiamo ancorati all’atto in sé. Impariamo l’arte di lasciarci trovare da Dio e di lasciarci ridimensionare, cedendo a Lui l’iniziativa, mettendo al suo cospetto l’infinita povertà e la nostra fragilità. Davanti a Dio abbiamo il diritto di essere poveri, senza il bisogno di essere in competizione e di rimanere nella faticosa ricerca della nostra giustizia, che non interessa a nessuno e che ci rende capaci solo di giudicare.
L’intima presunzione di essere giusti è disprezzo nei confronti degli altri: per sopravvivere alle nostre sconnessioni e riconsolarci troviamo qualcuno da disprezzare e da considerare peggiore di noi. Tutto ciò non porta da nessuna parte. L’unica cosa che ci guida verso la novità, a un giorno del perdono e del cambiamento, è metterci nelle mani di Dio poveri come siamo.