7ª domenica tempo ordinario Mt 5,38-48

 
 

Cristo è il perno della nostra vita –

a cura di Don Luciano Condina –

Questa domenica incontriamo il vangelo nella sua piena radicalità, ossia quello che ci chiede di amare i nostri nemici e di non opporci al malvagio, superando la legge del taglione che sancisce: «occhio per occhio, dente per dente». E non era affatto una legge primitiva o di vendetta, in quanto garantiva equità nella giustizia: se ti è stato tolto un occhio ti spetta un occhio, non due. Perché, si sa, che quando riceviamo un torto, spesso siamo pronti a chiedere un risarcimento maggiore del danno subito: un semplice sgarbo ci porta a invocare tuoni e fulmini sul maleducato di turno, o a chiedere milioni di euro invocando i «danni morali». I detentori di partita Iva sanno bene che, purtroppo, si trovano a dover pagare le tasse su denaro non ancora incassato – non essendo neppure certi che lo incasseranno – e questa norma è ben più ingiusta della legge del taglione, in quanto l’erario chiede l’occhio prima che gli sia stato tolto. Ma sorvoliamo.

L’invito di Gesù ad amare i nemici incarna la radicale utopia del vangelo: amare i nemici non è alla portata dell’umano. Se amare è dare la vita per qualcuno – un coniuge lo fa per l’altro, un genitore lo fa per un figlio – dare la vita per un nemico è oltre l’umano. E se il prossimo non è nemico ma sconosciuto, il discorso non cambia. La stragrande maggioranza delle persone afferma di essere «buona e cara, però…». Se esiste un però, significa che non siamo «buoni e cari»; anche i boss mafiosi perseguono un’etica simile.

L’amore evangelico, quello che ci porta a dare la vita per un nemico, non si può esercitare con un atto di volontà. Chiedendoci questo, Gesù ci invita a innestarci nella vita in Lui, perché da Lui solo possiamo ricevere lo slancio eroico che porta a compiere un atto simile.

Penso a san Massimiliano Kolbe che, ad Auschwitz, si offre in sacrificio per salvare un padre di famiglia: solo se viviamo innestati in Cristo possiamo amare come Lui, perché non siamo più noi ad amare ma Cristo che vive in noi, come afferma san Paolo.

Il vangelo di questa domenica ci ricorda per l’ennesima volta che il cristianesimo non è un’etica o una filosofia, non è un sistema di valori, ma è la relazione con una Persona che è fonte della vita, dell’amore, della santità. Un tempo, per spiegare questo concetto ai bambini, facevo l’esempio del camaleonte. Noi siamo come i camaleonti, che assumono il colore di ciò che toccano; essi non possono ricoprirsi di una tinta con la forza di volontà – seguendo una morale – ma devono toccare quel colore per assumerlo sulla loro pelle. Ecco, l’amore di Cristo – quell’amore in grado di amare anche il nemico – ha il colore dell’oro, e per poter esercitare l’amore e diventare di quel colore dobbiamo toccare Cristo: nella preghiera, nei sacramenti, nelle persone che l’hanno già dentro, nella carità. Il contatto fisico è chiarissimo nell’episodio dell’emorroissa, che ottiene la grazia nel momento in cui tocca il mantello di Gesù. Gesù va toccato, bisogna farne esperienza: solo così potremo innestarci nella vita cristiana, che ci porta non a “fare” i cristiani, ma a “essere” cristiani. L’amore che riceviamo scende dal Cielo: «Rivestiti di potenza dall’alto», dice Gesù ai discepoli in Lc 24,49.

Allora contempliamo Cristo e restiamo in relazione con Lui: da questo deriveranno la mitezza e la capacità di compiere atti straordinari d’amore, perché senza di Lui non possiamo far nulla.