Omelia del Giovedì Santo
Il giovedì santo nell’anno della fede per rimotivare il nostro ministero cattedrale 28 marzo 2013
1. Nella vita di ciascuno di noi o più precisamente nel nostro passato, c’è una stagione che di solito viene indicata come età dei sogni o dei progetti.
Le domande che si ponevano sono note: che cosa farò nel mio futuro? Quali scelte per dare un senso compiuto alla vita? E nell’immaginario della preadolescenza, tra le ipotesi più ricorrenti, c’era anche quella di fare il prete. In anni più recenti, invece, questa ipotesi è cancellata; primeggiano i sogni imposti dalla cultura dominante. “Che cosa vorresti fare da grande?, il pilota, mi diceva un ragazzo”.
Talora la vita come vocazione ritorna nella maturità; ma sovente confusa e debole, che il più delle volte viene presto rimossa. Di solito non sappiamo ricordare con chiarezza le motivazioni che ci hanno spinto ad entrare in seminario e a prendere la decisone di fare il prete. Quel desiderio è avvolto nel mistero.
Ma il giovedì santo, secondo la tradizione liturgica di questa settimana, non è solo il contesto celebrativo più intenso dei grandi eventi che decidono il destino dell’umanità; è il giorno del testamento del Signore; il giorno più opportuno per ripensare il nostro ministero nelle sue radici più vere e decisive.
La vita spirituale di ciascuno di noi ha bisogno sovente di essere ri-motivata, di essere scossa dall’abitudine che la indebolisce.
2. La stessa parola di Dio ci suggerisce di porre, in un rispettoso e devoto silenzio una domanda: perché in una stagione precisa della vita ho deciso di fare il prete?
Ho scelto di fare il prete, innanzitutto per amore del Signore, per diventare testimone, ripresentazione visibile di Gesù, per continuare a dire l’oggi di Dio per l’uomo di questo tempo.
Gesù, infatti, entrando nella sinagoga di Nazareth compie un gesto liturgico: apre il “rotolo del profeta Isaia” ed esprime la coscienza vivida di realizzare l’oggi di Dio, soprattutto attraverso tre parole del profeta poeta dell’A.T. : “Lo Spirito…mi ha consacrato…mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio e a predicare un anno di grazia” (Lc. 4, 18-19).
Le parole di Gesù fanno eco alle parole del profeta e annunciano il programma del suo ministero itinerante. Passato e futuro si realizzano nell’oggi di Dio.
3. Anche per noi, carissimi sacerdoti, c’è l’oggi di Dio, in cui siamo sollecitati a rinnovare e a reimmergere il nostro ministero in quello di Cristo, consacrato
dallo Spirito per annunciare e realizzare l’anno di grazia del Signore. Non è forse questo il primo compito dell’anno della fede per noi sacerdoti?
Di qui l’urgenza di ricuperare la limpidezza della nostra immagine di segno di Cristo speranza del mondo; quell’immagine facilmente opaca e sovente poco nitida. Gli anni che passano, infatti, consumano nelle tante cose da fare i giorni del nostro ministero; hanno più il potere di affannarci per le opere di Dio che non per il Dio delle opere.
Forse dobbiamo riportare nella sequenza dei giorni, dei mesi e degli anni che passano, la coscienza del primato di Dio, restituendo alla nostra vita quella essenzialità di valori di cui il mondo ci ha defraudati.
Il Papa Benedetto XVI ci ha dato una sorprendente testimonianza, dicendo di volere continuare ad amare l’umanità con il linguaggio del silenzio, della preghiera, dell’adorazione che immergono nella grazia del mistero. Il Papa non va in pensione: egli continua a servire la Chiesa con la preghiera e con l’offerta.
Ma quando c’è il passaggio da una vita attiva a una vita contemplativa, sovente il mondo dà una strana interpretazione: tale passaggio significa entrare in una stagione pressoché inutile, sciatta, insidiata dalla noia.
Ed invece la parola più ricorrente del Papa per esprimere l’ultimo tratto di pellegrinaggio verso l’eterno è stata la preghiera; e il popolo credente lo ha capito. La preghiera, vocazione e missione per continuare ad incontrare la gente, la Chiesa, il mondo, davanti a Dio.
4. Ma c’è una seconda motivazione da ricuperare nel vivo del nostro ministero: ho scelto di fare il prete per amore della Chiesa. Preti per dire messa, d’accordo; preti per donare Gesù al mondo, come chiede il celebrante nella prima epiclesi: “Manda il tuo Spirito e santifica i doni che ti offriamo, perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo”.
Ma insieme, dopo la consacrazione del pane e del vino, il celebrante recita la seconda epiclesi, ricordando che si diventa preti per costruire la Chiesa: “Dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo “.
Per questo le comunità non si organizzano, ma si generano, attraverso beninteso, l’azione dello Spirito e la ministerialità del sacerdote.
5. E’ risaputo che in questi anni la geografia della Chiesa va modificandosi per riorganizzarsi sul territorio, come ha fatto lungo i secoli; e oggi lo fa con profonda sofferenza, constatando la penuria di sacerdoti che, nonostante il peso degli anni, continuano con zelo e amore il loro servizio quotidiano, senza intravvedere nel futuro i segnali di nuove vocazioni, con la conseguenza crescente di comunità senza Eucaristia.
Ma non possiamo dimenticare la perennità del mistero che va rinnovandosi. E’ Gesù stesso che costruisce la sua Chiesa; è Lui che fa esistere e fa crescere
ogni nostra comunità. “La Chiesa, dice il Papa nel messaggio al popolo di Dio della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, è lo spazio che Cristo offre nella storia per poterlo incontrare” (Massaggio al popolo di Dio XIII Assemblea Sinodo dei Vescovi). Cristo, dice l’Apocalisse “Ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il Padre” (Ap 1,6)). Per questo “occorre dare forma a comunità accoglienti…e concrete esperienze di comunione, che, con la forza ardente dell’amore – “vedi come si amano!” (Tertulliano, Apologetico, 39, 7) – “attirino lo sguardo disincantato dell’umanità contemporanea. La bellezza della fede – dice ancora il Papa, deve risplendere, in particolare, nelle azioni della sacra liturgia soprattutto nell’Eucaristia domenicale” (Messaggio al popolo di Dio n.3).
La prima e convincente forma di evangelizzazione capace di sfondare il muro dell’indifferenza della cultura dominante, è una fede che dice una vita bella, anche nei segni del venerdì di passione, nei segni della pasqua domenicale. Anche per questo è urgente liberare alcune parole dal tono della rassegnazione, dell’abitudine, per educare ad una fede “autentica e rinnovata”, come dice il Papa nel Motu proprio.
C’è da ricuperare la bellezza del celebrare, del partecipare, del silenzio adorante, del ritrovarci davanti all’Eucaristia per raccontare la nostra vita e quella dell’umanità; per chiedere il dono di comunità generatrici di vocazioni. Anche per questo la nostra gente è attratta quando davanti al tabernacolo del Mistero, vede il nostro silenzio pensoso e adorante, in dialogo con l’invisibile.
6. Il giovedì santo, forse è il giorno più vero e più opportuno per ricuperare le parole più significative che esprimono la vitalità del nostro ministero e la bellezza di essere stati chiamati, nonché la gioia di essere preti per dire la Messa, che rende eucaristica la nostra vita.
“Il giovedì santo, per il nostro popolo e per noi è il giorno per dire “grazie”, per rinnovare l’obbedienza al comando del Signore, che al primo posto, nella strategia pastorale per chiamare i nuovi operai del Regno, usa un imperativo ostinato, paziente e fiducioso: “Rogate Dominum messis” (Mt.9,28)
Questo imperativo diventa particolarmente efficace sulle labbra dei bambini, dei ragazzi, dei sacerdoti e dei consacrati e soprattutto di chi è curvo sotto la stessa croce di Gesù.