14ª domenica tempo ordinario
don Luciano Condina commenta il Vangelo di Mc 6,1-6
«Non è costui il falegname, il figlio di Maria?» (Mc 6,3), esclamano gli abitanti di Nazareth increduli di fronte alla grande sapienza di Gesù in sinagoga, difficile da spiegare pensando al ragazzo visto crescere nella bottega di Giuseppe, che certamente non era luogo di studio né di approfondimento delle Scritture.
Questo versetto apre alla questione del nome che ci portiamo appresso e alla capacità umana di identificare le cose. Se è vero ciò che la filosofia del linguaggio ribadisce – semplificando Heidegger – ossia che «ciò che non ha nome non esiste», appare importante dare il nome giusto alle cose, alle situazioni, alle persone. «Chiamiamo le cose per nome!», esclamiamo quando dobbiamo dire la verità e fare chiarezza in situazioni intricate.
È interessante notare come il termine “nome” sia in latino nomen sia in greco ònoma possa indicare sia la denominazione sia il pretesto, cioè un significato differente, un nome sbagliato. «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene», tuona Isaia in 5,20. Riguardo all’uomo, sbagliare nome può significare sbagliare esistenza e dunque è importante capire qual è il nostro vero nome. Non è certo un caso che nel sacramento del Battesimo, il primo dell’iniziazione cristiana, venga proprio imposto il nome.
Possiamo allora dire che ognuno di noi porta con sé tre nomi. Il primo è quello dell’infanzia, spesso un diminutivo che vuol essere tenero ma, se protratto nel tempo, diventa ridicolo o infantile, come Pepo, Gnapo, Cicci, e via discorrendo. È il nome dell’infanzia che va abbandonato, perché identifica e cristallizza il bambino nella fase infantile. In questo brano di vangelo Gesù non è identificato con il nome, ma come «figlio di Maria», come estensione della mamma.
Il secondo è il nome scelto dal mondo: può essere il ruolo che abbiamo nella società o sul lavoro: l’ingegnere, il ragioniere, l’avvocato, il cavaliere, l’assessore, per fare qualche esempio. È la posizione occupazionale a dare un nome che non è quello vero, non è la propria identità. Spesso si resta incapsulati e incarcerati in questo secondo nome, che rappresenta un ruolo da difendere per qualche privilegio annesso, ma tradisce la vera natura dell’identità propria, soffocata dalle aspettative esterne. Gesù qui è visto solo come «il falegname», ossia qualcuno che più che tagliare e incollare legna non può fare. Il nome del mondo è una gabbia che impedisce alla potenzialità personale autentica e spirituale di sbocciare e brillare.
Il terzo è il nome di battesimo, che rompe con i ruoli e le aspettative esterne per identificarsi con ciò che Dio vuole fare di ognuno. L’angelo dice a Maria: «Lo chiamerai Gesù» (Lc 1,31), che significa “Dio salva”. «Lo chiamerai Giovanni”» (Lc 1,13), dice l’angelo a Zaccaria, che significa “Dio opera grazia”.
L’identità di Gesù nella verità del suo nome incarna la verità del nostro nome di battesimo, quello che contiene la missione che Dio ha pensato per ciascuno di noi, che è la nostra vocazione ed è ciò che ci permetterà di dare abbondante frutto ed esprimere tutta la tua bellezza autentica.
Simone di Giona diventerà Pietro e Giacomo e Giovanni saranno chiamati figli del tuono.
Il nome dell’infanzia e quello della società permettono solo di fare quattro cose limitate nel tempo e destinate a morire con il nostro corpo. Il nostro vero nome è la missione che Dio ci affida e in esso possiamo liberarci dall’asfissia che la società ci impone: è il nome attraverso cui fare grandi cose, quelle di Dio, e diventare salvatori in Cristo.