24ª domenica tempo ordinario

 
 

Don Luciano Condina commenta il Vangelo di Mc 8,27–35

La croce non va esclusa dalla nostra vita

La professione di fede di Pietro che, rispondendo alla domanda di Gesù «E voi chi dite che io sia?», afferma: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,29), si potrebbe considerare, a buon diritto, il primo pronunciamento magisteriale ex cathedra del primo Papa. Abbiamo infatti l’attestazione stessa di Gesù relativamente all’ispirazione divina della risposta, con il conseguente immediato riconoscimento del ministero petrino, «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa», che troviamo in Mt 16,18.
Dunque ci troviamo di fronte alla primissima delle dichiarazioni infallibili pronunciate da un pontefice, parola che indica l’essere “ponte” per la fede altrui e dunque pietra su cui passare. Al riguardo va anche notato che il nome Cefa dato a Simone (in aramaico Kefa) in ebraico è Kaifa, ossia il nome del sommo sacerdote. E dunque: “su questo Kaifa – e non l’altro – edificherò la mia chiesa”.
Ma ecco che, subito, Pietro comincia a correggere Gesù, prendendolo in disparte come uno scolaretto indisciplinato, riguardo alle vicissitudini di sofferenze, morte e resurrezione che lo avrebbero riguardato a Gerusalemme; senza dare invece molta importanza alla parte relativa alla resurrezione: in un istante, da voce di Dio, Pietro diventa voce di Satana.
È destabilizzante vedere e sapere che, pur essendo cristiani, possiamo diventare voce del maligno. La ragione risiede nel «pensare secondo gli uomini e non secondo Dio» (Mc 8,33).
Il pensiero degli uomini, a differenza di quello di Dio, tende sempre a escludere un elemento importante: la croce. Questa è quasi sempre al di fuori dei nostri calcoli. Programmiamo la nostra vita senza croce, leggiamo la nostra vita come giusta solamente se è scansata, mentre qui la croce fa parte del disegno. Non è il fine, perché il fine sarà la resurrezione, ma è un tratto del tragitto. È la realtà da accettare, con i suoi problemi e le sue difficoltà.
Ogni missione che parte da Dio passa per la croce, che dev’essere assolutamente vista come strumento di risurrezione, perché tale è se affrontata in Cristo. Pensare secondo Dio significa sapere che essa verrà e sarà da accogliere come un’opera di Dio, e non come un incidente di percorso privo di significato. Sono tanti i cristiani che, al sopraggiungere della croce, perdono di vista il senso della propria fede affermando che «Dio questa cosa non me la doveva fare!».
«Chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo la salverà» (Mc 8,35). Esiste dunque una vita da perdere e una vita da salvare. Chi difende la propria esistenza, chi vuole salvare capra e cavoli, essere cristiano e non perdere la propria vita sotto il punto di vista delle esigenze di questo mondo, si illude e la perderà.
Molto spesso in ogni atto d’amore la persona deve decidere fra la salvaguardia della propria esistenza oppure quella dell’altro. Perdere la propria vita significa entrare nell’amore, nel saper amare e, dunque, entrare in quella vita piena che disperatamente cerchiamo ma che non riusciamo a trovare. Tanti fallimenti matrimoniali nascono proprio dal fatto che si vogliono tenere insieme due elementi incompatibili fra loro: amare l’altro e salvare la propria vita. Questo non è possibile.
«Il matrimonio è la tomba dell’amore», dice il mondo. Falso! Il matrimonio è la tomba dell’egoismo. È dunque nella croce che possiamo verificare cosa è amore e cosa non lo è nei nostri atteggiamenti. Allora la croce diventa il crogiuolo in cui distillare l’amore più santo.