3ª Domenica Quaresima Anno C

 
 

don Luciano Condina commenta il Vangelo di Lc 13,1-9

Gli antipodi: il male e la pazienza di Dio

Due temi si incrociano nelle letture di questa domenica, intimamente legati tra loro: il male e la pazienza di Dio. Dal nostro punto di vista, il male sembra mettere in dubbio l’onnipotenza e la giustizia di Dio. Perché Dio permette il male? Perché – almeno in apparenza – non punisce i malvagi? La nostra sete di giustizia vorrebbe il male punito e vendicato subito. Dio, invece, sembra avere una pazienza infinita, quasi vergognosa; ci sembra impotente, incapace di fare il suo mestiere. La buona notizia è che i malvagi muoiono: sono morti Stalin e Hitler. La cattiva notizia è che moriamo anche noi. Guardiamo allora il male più da vicino.

Il Vangelo cita due recenti episodi di cronaca dell’epoca come esempi di male. Il primo è una strage ordinata da Pilato nel Tempio: Pilato sarà rimosso dal suo ruolo proprio per l’eccessiva crudeltà. E così chiedono a Gesù: che colpa avevano quelli morti in quella situazione? Dietro c’è l’idea antica che le disgrazie servono a Dio per punire le nostre colpe. In fondo è quello che pensiamo anche noi quando speriamo che il malvagio di turno venga eliminato fisicamente.

Il secondo episodio di cronaca è il crollo di una torre che uccide 18 persone. Qui l’assenza di Dio sembra quasi più̀ grave, perché non c’è l’intervento umano di un malvagio. Come spiegare tutto questo male? La risposta di Gesù spiazza e può persino sembrare crudele.

Egli non dà una risposta sul male in sé, ma su come il male ci deve spingere ad agire. Tutti noi pensiamo di dover conservare questa vita il più a lungo possibile e nel migliore dei modi. Il male ci ferisce perché minaccia la nostra esistenza terrena e la nostra felicità, ponendoci davanti alla morte. Gesù, invece, ci invita non tanto a guardare quanto e come viviamo, ma cosa facciamo della nostra vita. La vita del cristiano è una continua conversione dal male al bene, altrimenti rischiamo di perire “allo stesso modo”: il che non significa sotto una spada o sotto un crollo, ma da non convertiti.

La conversione è un atto libero, una nostra scelta di vita verso il bene e la luce: una vita improntata alla fede e alla speranza. Ma non siamo soli, perché, aprendoci alla conversione, apriamo il nostro cuore allo Spirito Santo e alla sua azione.

Nella parabola del fico sterile entra in gioco la pazienza di Dio. Cosa c’è di più inutile di un albero da frutto che di frutti non ne fa? Il fico è una pianta fondamentalmente selvatica e ogni cura rappresenta una premura quasi superflua. Questa cura indica tanta misericordia nel fattore che si occupa dell’albero. Sulla pazienza di Dio noi vorremmo due pesi e due misure: per gli altri giustizia e punizione subito, per noi misericordia e perdono infiniti, senza che dobbiamo fare nulla.

Ma allora quando deve avvenire la nostra conversione? Quanto può aspettare Dio? È il tema di questa parabola e il simbolismo è trasparente. Il padrone della vigna è Dio e noi siamo il fico sterile. Il Padre ha piantato il fico e viene a vederlo, ma non ci sono ancora frutti. Il vignaiolo è Gesù: per tre anni – i tre anni del suo ministero – ha lavorato senza raccogliere frutto. Il Padre pensa che possa bastare, non è più il caso di attendere. Il Figlio invece intercede: aspettiamo ancora un anno, egli rinnoverà le sue cure e se non succederà nulla, il fico potrà essere tagliato.

Noi abbiamo un tempo limitato per convertirci; quanto dura quell’anno di cui parla la parabola? Non lo sappiamo, ma potrebbe anche terminare presto.