XXVII Domenica Anno C
don Luciano Condina commenta il Vangelo di Lc 17,5-10.
La fede è una stretta relazione con Dio
Questa domenica ci troviamo di fronte agli apostoli che chiedono a Gesù di aumentare la loro fede, e Gesù risponde in maniera paradossale: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe» (Lc 17,6).
La richiesta degli apostoli presuppone un concetto di quantità, ossia di “aumentare” la fede: come se fosse qualcosa di cui poter parlare in termini di poco o molto, presupponendo che solo un’adeguata quantità possa permettere il verificarsi di determinate cose. Ora, un granello di senape è infinitesimale; e Gesù, identificando una quantità irrisoria, quasi invisibile a occhio nudo, sta dicendo ai discepoli che non ha senso parlare di fede in quei termini.
Ma allora cos’è la fede? La fede è un rapporto, è una relazione e non esiste per se stessa. La fede è un atto, è fidarsi di Dio. Gesù sta dicendo che la fede non è un bagaglio funzionale solo se ha un certo peso, ma è un atto che va praticato, esercitato. O si esercita o non si esercita. La fede non ce l’abbiamo in tasca, non l’abbiamo per certa, poiché non è quantificabile; ma esercitabile sì e ti chiede sempre di crescere, ,di camminare. Al mattino ti svegli e devi entrare nella fede di oggi, che non è più quella di ieri. La fede che dà la vita nuova in Cristo, che fa pulsare nella nostra esistenza la natura dei figli di Dio non è qualcosa che si misura in chili e neppure un bagaglio di nozioni che recitiamo nel Credo, che contiene i dati fondamentali della nostro credere. Io cammino “nella fede”, cioè cammino mentre sto in relazione con Dio; agisco “nella fede”, ossia agisco mentre vivo una relazione con Dio. Oppure non lo faccio restandomene fuori.
Arriva poi il termine celeberrimo dei “servi inutili”, dopo che hanno fatto il loro dovere.
È un concetto molto umile per cui nessuno è da ritenersi indispensabile, a prescindere dall’importanza e dalla quantità di lavoro svolto. Qui, però, va fatta una precisazione etimologica. “Inutile” in latino vuol dire una cosa un po’ diversa: in-utilis è “colui che non ha utile”e il termine greco akreios indica qualcuno che non ha diritto al salario. Gesù conclude quindi invitando gli apostoli a dire “siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10), solo il loro dovere.
Si tratta allora di capire che la ricompensa della fede è la fede stessa; che non abbiamo nessun bisogno di essere pagati per vivere la vita della fede, perché è ricompensa a se stessa. La realtà di vivere le cose di Dio, di lavorare nella sua vigna è già salvezza e privilegio. Quante volte nella chiesa abbiamo prestato dei servizi e poi abbiamo fatto rimostranze chiedendo il conto, presentato i nostri diritti perché abbiamo lavorato. Agendo così non abbiamo ricevuto la vera ricompensa, perché la vogliamo dagli uomini, dai riconoscimenti, da questo mondo. La vera ricompensa è proprio il servizio che Dio ci dà da fare; è quella la nostra gioia, il nostro tesoro: lavorare nella vigna del Signore.
Dio, certamente, ha diritto di chiederci dei servizi e di compiere una missione. La nostra ricompensa sarà di portarla a termine, perché le cose che Dio mi chiede sono i regali che mi fa; le cose che Dio mi chiede sono le sue grazie che mette nella mia vita.
La nostra ricompensa è essere contenti delle cose buone che abbiamo l’occasione di fare.