IV domenica di Pasqua

 
 

A cura della Fraternità dlla Trasfigurazione

La pericope evangelica di oggi pone al centro la figura del buon pastore, di cui presenta caratteristiche diverse. Nei versetti 11-13 essa è descritta in contrapposizione a quella del mercenario e proprio tale contrasto permette di intuire qualcosa di Colui che con il buon pastore si identifica: Gesù. Egli offre la vita per le sue pecore, che sono sue proprio perché unite a lui da un legame di appartenenza. Questo comportamento si distingue così da quello di chi, preoccupato di salvare sé stesso, abbandona il gregge in balia di forze oscure, che spezzano la comunione e portano alla dispersione e alla frammentazione. Nei giorni della passione Gesù sarà più volte tentato di salvare sé stesso, persino di scendere dalla croce, ma si rifiuterà sempre di ascoltare questo invito. Il suo sguardo, infatti, non è rivolto verso di sé ma a noi, sue pecore, a cui egli presta un’attenzione fatta di cura e responsabilità. Responsabilità è un termine spesso dimenticato nella nostra società individualista eppure, come insegna anche il Piccolo Principe a proposito della sua rosa, è la naturale conseguenza dell’aver creato un legame. Il mercenario lavora per guadagnare; il suo rapporto con le pecore, di conseguenza, è utilitarista tanto che di fronte al primo pericolo egli fugge e le abbandona. Al pastore, invece, importa delle pecore, gli importa talmente da dare la vita, da offrirla per ognuno di noi, come ripetutamente afferma la nostra pericope, invitandoci implicitamente a riconoscerci amati e a provare gratitudine per questo dono immenso. Se in questi primi versetti è messo in risalto quanto riceviamo dal Signore, quella “misura buona, pigiata, colma e traboccante” (Lc 6,38) di bene che ci viene versata in grembo, in quelli successivi è descritta un’altra dimensione dell’amore che lega il pastore alle sue pecore: l’intimità reciproca. Essa viene suggerita, per questo gregge dalla dimensione universale, dall’ascolto e riconoscimento della voce e dall’uso del verbo “conoscere”, che nella Scrittura si riferisce sempre a un rapporto personale e vitale. La voce è segno dell’identità e unicità della persona, è quanto permette di riconoscerla ma anche ciò che fa sobbalzare il cuore di gioia per la presenza di chi ci è caro, come avviene per la sposa del Cantico dei Cantici (cf Ct 2,8) e a Maria Maddalena il giorno di Pasqua, quando si sente chiamare per nome dal Maestro. I verbi finali del versetto 16 sono al futuro in quanto si riferiscono a ciò che avverrà nel tempo grazie alla morte di Gesù. E di tale morte si parla anche negli ultimi due versetti con espressioni che mettono in risalto contemporaneamente l’amore senza limiti del Signore e la sua estrema libertà. È qui presente un richiamo alla passione quale la descrive l’evangelista Giovanni e, in particolare, alla scena della lavanda dei piedi. Lì Gesù depone le vesti, simbolo della sua identità, per poi riprenderle alla fine. Nello stesso modo nel brano odierno egli afferma di dare la vita da sé stesso e non perché qualcuno gliela toglie; prova ne è il fatto che, dopo averla offerta, la riprenderà di nuovo. La morte di Gesù nel Vangelo di Giovanni non appare, diversamente da quanto avviene per noi, come il segno della sua vulnerabilità di uomo; essa richiama invece l’immagine di un atto regale, grandioso, capace di esprimere un’offerta libera e volontaria, il dono eccedente e senza limiti di sé stesso per amore dell’uomo.