XXVI domenica del Tempo ordinario
A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Nell’episodio di Cesarea di Filippo che la liturgia domenicale ci ha di recente proposto, Gesù aveva rimproverato Pietro di non pensare “secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33). Il brano evangelico di oggi può costituire un esempio concreto di che cosa significa acquisire una mentalità diversa, un modo di ragionare, di valutare la realtà che non riflette le categorie anguste da noi solitamente utilizzate, ma usa criteri più ampi, più generosi. Si tratta, innanzitutto, di criteri che non hanno come parametro gli interessi personali ma la carità smisurata e senza confini, quella carità che è indubbiamente il metro di misura utilizzato da Dio per giudicare uomini e realtà. È infatti sufficiente – suggerisce la pericope odierna – l’offerta, preziosa ma anche semplice e poco impegnativa, di un bicchiere d’acqua per essere certi di non perdere la propria ricompensa. Magnanimità e rigore si alternano in questo brano, obbligandoci a uscire dai nostri schemi ristretti e adottare prospettive diverse rispetto a quelle verso cui ci orienta la nostra mentalità mondana, prospettive che rispecchiano il modo di pensare di Dio. Il primo evento narrato riguarda l’apostolo Giovanni; egli racconta un fatto e descrive la sua reazione, una reazione che ben si addice a una personalità impetuosa come la sua, così focosa da meritarsi insieme al fratello il titolo di “figlio del tuono”. Osservato a distanza, il modo di valutare la realtà dell’apostolo appare limitato e anche un po’ meschino; esso riflette probabilmente i problemi e i conflitti delle comunità primitive dove il valore dell’appartenenza poteva essere considerato più rilevante rispetto all’importanza attribuita alla diffusione del bene. Le risposte di Gesù costituiscono, quindi, un invito a dilatare mente e cuore, a superare ogni idea di privilegio, a mettere al primo posto la comune ricerca del bene rispetto alla quale altri valori quali, per esempio, l’appartenenza a una comunità risultano relativi e secondari. Se quanto caratterizzava la prima parte della pericope si poteva sintetizzare con il termine “ampiezza” – ampiezza di vedute, solidarietà, tolleranza -, la seconda sezione sembra invece contrassegnata dalla radicalità; il linguaggio stesso è diventato netto, categorico, quasi senza sfumature come suggerisce il frequente uso dei verbi all’imperativo. Il tema centrale è relativo allo “scandalo” nei confronti dei “piccoli che credono in me”; il riferimento, dunque, non riguarda solo i bambini, ma tutti coloro che all’interno della comunità non hanno potere e non detengono ruoli significativi. “Scandalo” è un termine che attualmente fa riflettere, soprattutto dopo la scoperta di innumerevoli casi di abuso non solo sessuale ma anche di autorità avvenuti nella Chiesa, e invita a non sottovalutare la sua drammaticità e il male che può arrecare alla comunità; l’immagine dell’uomo al cui collo viene messa la macina da mulino ed è gettato in mare rende bene l’idea della sua gravità e tragicità. L’oggetto in questione, infatti, riguarda il bene più prezioso che l’uomo può ottenere: l’ingresso nella vita, una vita considerata in base al suo orizzonte più ampio, quello dell’eternità. E poiché la posta in gioco è altissima è necessario essere radicali; la disponibilità a tagliare mano e piede e a cavarsi un occhio, strumenti indispensabili per il nostro agire quotidiano, non indica, quindi, disprezzo per il corpo ma rivela piuttosto la preziosità di quel bene – la vita – a cui il cristiano desidera avere accesso. In fin dei conti si tratta dello stesso atteggiamento assunto dal mercante intenzionato a vendere tutti i suoi averi in cambio della perla preziosa (cf Mt 13,45-46), atteggiamento che ci rivela come bisogna essere disposti a rinunciare a parti di sé per avere in cambio tutto.