VI domenica del Tempo ordinario
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A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Spesso mi capita di ricevere la pubblicità di corsi di aggiornamento dove viene proposto l’apprendimento di tecniche utili al conseguimento della felicità o del benessere globale della persona. Confesso di considerare questi autori dei venditori di fumo: nella mia ormai lunga vita, infatti, non ricordo di aver mai incontrato qualcuno che abbia raggiunto in modo stabile e continuativo una situazione di appagamento totale; se tuttavia così fosse, vorrei chiedere a questo tale come si possa essere felici in un mondo in cui tanti esseri umani soffrono profondamente. Ben diverso è il messaggio di Gesù che non minaccia, come l’espressione “guai” potrebbe far supporre, ma mette in guardia ed esprime un severo monito proprio nei confronti di quelle categorie di persone che sembrano vivere nel benessere. Dobbiamo di conseguenza ritenere che è un bene soffrire su questa terra nella speranza di una ricompensa futura, mentre la felicità attuale è premessa per una condanna eterna? Una lettura di questo tipo ha giustamente suscitato le critiche dei “maestri del sospetto” dei secoli scorsi, ma essa non corrisponde affatto al pensiero di Gesù. Dio indubbiamente non desidera che l’uomo soffra, sia perseguitato o privato dei beni di prima necessità. È vero, però, che tali situazioni dolorose offrono un’occasione unica a coloro che le vivono: la possibilità, come avviene per gli innumerevoli personaggi in difficoltà incontrati nel Vangelo – ciechi, zoppi, paralitici, indemoniati e molti altri – di aprirsi a Dio, di chiedere il suo aiuto e fidarsi di Lui. Ben diversa, invece, la posizione di coloro che sono ricchi, sazi, sereni, famosi; il rischio è che si chiudano in sé stessi, si ritengano autosufficienti, credano di non aver bisogno di niente e di nessuno. Essi si pensano invulnerabili e considerano eterna la loro situazione attuale, dimenticando che lo scorrere del tempo può presentare numerose sorprese. Luca illustra con maestria questo pericoloso atteggiamento nella parabola del ricco stolto (Lc 12,15-21), il quale si illude pensando che la sua vita e la sua felicità, simboleggiata dal riposo e dal divertimento, dipendano dai beni che egli possiede. Gesù rivolge queste parole ai suoi discepoli mentre “una gran moltitudine di gente” venuta per ascoltarlo cerca di toccarlo per essere guarita. Quale eco avrà avuto nel cuore dei suoi quella proclamazione così insolita e lontana dalla loro mentalità, che li avrà spinti a rivedere il loro concetto di felicità? Per Gesù, infatti, essa è compatibile con la fame, la povertà, l’afflizione, il disprezzo e la persecuzione. Quelli che persevereranno nel seguirlo potranno constatare che egli stesso attraverserà tutte queste esperienze senza cercare di evitarle. Esse sono occasione di beatitudine perché invitano all’apertura del cuore, fanno crescere la fiducia e la speranza, ma soprattutto l’affidamento dell’intera nostra vita a Colui che, solo, può davvero arricchirci, sfamarci, consolarci, proteggerci. Gesù pronuncia il suo discorso alzando gli occhi verso i suoi discepoli, mentre è circondato da un’immensa folla di persone fragili; comportandosi in questo modo egli consegna ai suoi l’altra chiave per aprire le porte alla beatitudine: avere a cuore l’altro, occuparsi di lui evitando ogni forma di individualismo e autosufficienza per trovare la propria gioia nei gesti generosi dell’amore fraterno.