VIII domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

“Un cieco non può guidare un altro cieco” dichiara il Vangelo di questa domenica. Un’affermazione di semplice buon senso che, interpretata all’interno della parabola, suscita tuttavia una domanda: chi è questo cieco che ha la pretesa non solo di camminare senza correre rischi, ma addirittura di fare da guida a qualcun altro? La risposta non può che essere: ognuno di noi, ogni essere umano quando non permette alla Parola di trasformare il suo modo di guardare alla realtà e al Vangelo di illuminare il suo cammino. Tutti noi, infatti, soffriamo di una forma di dispercezione, che consiste nell’osservare il mondo filtrandolo attraverso una più o meno implicita chiave di lettura: i diritti, le esigenze del nostro Io, che ci rende ciechi rispetto a tutto quanto esula dall’interesse personale. È proprio questa forma di offuscamento della vista interiore che ci impedisce di percepire la trave presente nel nostro occhio, simbolo del nostro limite e del peccato, e induce a ingigantire la visione della fragilità e manchevolezza altrui. Il libro della Genesi ci ricorda che si tratta di un male vecchio tanto quanto il mondo e frutto del peccato, quando presenta Adamo mentre incolpa Eva per quanto commesso senza riconoscere la propria responsabilità (cf Gen 3,12); tutta la Scrittura, di fatto, è attraversata dalla descrizione di situazioni in cui – basti pensare a due personaggi così distanti come il re Davide e Pietro – la realtà viene completamente negata pur di tutelare il proprio Io. Solo l’abbandono di ogni forma di autoreferenzialità permette al discepolo di seguire il vero Maestro, l’unico degno di tale titolo (cf Mt 2,38), e di diventare simili a Lui. Le conseguenze di questo atteggiamento sono visibili: il superamento dell’egocentrismo trasforma il cuore, trasfigura l’interiorità della persona rendendola simile a un tesoro prezioso da cui si possono trarre parole buone, “che possano servire a un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano”, come scrive Paolo nella lettera agli Efesini (Ef 4,29). Al contrario, là dove il tesoro del cuore è cattivo non potranno che uscire parole aggressive, di calunnia e di disprezzo, provocando malessere, angoscia e tristezza in chi le pronuncia; dire male dell’altro e far prevalere la propria ira, infatti, procura talvolta soddisfazioni momentanee, ma non può non creare un profondo malessere interiore in quanto si oppone alla fondamentale vocazione umana: quella di amare il fratello. L’altra conseguenza di un cuore trasformato dalla luce del Vangelo è la generatività: esso, infatti, è simile a un albero che produce frutti buoni, frutti che nascono da parole di stima e di bontà, capaci di stimolare la maturazione delle persone, il loro desiderio di vivere e di partecipare alla creazione di un mondo migliore, facendo fruttificare questi “carismi dello Spirito, il Signore della vita”, come li definiva il teologo ortodosso Olivier Clément.