Anno della fede: dov’è finita l’eternità?
La storia non è mai rettilinea, è perennemente in svolta, ma ci sono svolte più o meno marcate. Quelle a gomito e a tornante meritano di essere dette epocali.
L’attuale svolta mi sembra epocale. Perchè? Perché sono caduti in picchiata i tradizionali valori cristiani che, o bene o male, ci hanno pilotati negli ultimi due millenni. Ora abbiamo imboccato il terzo, ma non vedo correzioni di rotta, anzi direi che si stia deragliando sempre più. Eccone i sintomi: 1. L’Europa, una volta tutta cristiana, ora in maniera più o meno velata, cerca di sbarazzarsi del cristianesimo e dei suoi valori; 2. Dio non è più evocato neppure quando in interviste televisive il “filosofo” di turno è interrogato su eventuali motivi di speranza. La speranza è tutta e soltanto nell’uomo, come se non ne avesse già combinate abbastanza; 3. il matrimonio in chiesa è in estinzione perché si preferisce la formula “fa’ e disfa”, con maggiore possibilità di piantarsi quando si è stufi. In compenso si apre alle “omo-nozze”, come se la natura non avesse una sua intrinseca evidenza; 4. la vita umana, una volta ritenuta sacra, è manipolata all’inizio, alla fine e durante; 5. si uccide e poi ci si uccide, senza che il pensiero dell’inferno sfiori minimamente le meningi dell’etero-sui-cida; 6. i riferimenti sacri sono sbertucciati e irrisi talora con volgarità; 7. la retorica mediatica dice di sperare nei giovani: peccato però che si ubriachino e abbiano inventato il bullismo; 8. eccetera.
Insomma, siamo in una situazione di degrado civile e culturale senza precedenti, e la Chiesa non sa più che pesci pigliare. Confidiamo che non si accovacci sulla crosta terrestre sino a perdere di vista l’Aldilà: sarebbe la catastrofe. Il «e mi sovvien l’eterno» di Leopardi vale pure per lei. Anche lei cerca di migliorare i tempi degli uomini, ma il paradiso in terra non si può costruire. Sarebbe tristissimo se in questo intento mettesse dietro le quinte l’eternità. Dio, dopo il diluvio, sentenzia che è stato inutile averlo mandato, perché il cuore dell’uomo è malvagio sin dalla sua adolescenza (cfr Gen 8,21).
Gesù fa una profezia talmente scontata che saremmo stati capaci di farla anche noi: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti in diversi luoghi e vi saranno carestie» (Mc 13,8). Tutte queste cose e altre simili, imputabili o no all’uomo, fanno troppo parte della struttura geo-politica del pianeta, per sperare che possano cessare non ostante lo sforzo lodevole dei benintenzionati.
La Chiesa si è svegliata sul sociale, dando il via a un suo specifico magistero, quando si è accorta che rischiava di perdere il treno. E allora, dopo la rivoluzione industriale e le sue note conseguenze sul mondo del lavoro, scende in campo Leone XIII con l’enciclica Rerum novarum (1891), cui ne seguono altre dei successivi pontefici. Anche il Concilio Vaticano II vi si cimenta con la costituzione Gaudium et spes (1965).
La Chiesa ha fatto bene. Ma questo immedesimarsi con le sorti storiche dell’umanità, sembra avere rimosso l’eternità dai suoi interessi prioritari. La povertà nel modo è enorme, le ricchezze sono mal distribuite, il problema della fame è straziante e urgentissimo. Mi chiedo però se tocchi alla Chiesa scendere in prima linea su questi problemi che sempre furono e sempre saranno. Riporto un titolo comparso in prima pagina su l’Avvenire (giornale della CEI) di oggi: Da Francesco l’auspicio di una riforma finanziaria etica che produca a sua volta una riforma economica salutare per tutti. Auspicio sacrosanto! Ma lo trovo così tecnico, così sociologico, così evangelicamente neutro, da chiedermi se la Chiesa non si sia assunta il ruolo di osservatorio dell’ etica economia planetaria, con punte particolarmente acute in Italia, ove la conferenza episcopale discetta a tutto campo di crisi economica, di governi forti e di governi deboli. Emblematico in tal senso lo spot che la CEI manda in televisione nella stagione dell’ottopermille: uomini e donne di chiesa esclusivamente impegnati nel sociale. Certamente perché di maggior efficacia rispetto al fine, ma a un prezzo troppo alto: quello di sfalsare «l’autentica natura della vera chiesa […] presente nel tempo e tuttavia pellegrina, […] in modo tale che quanto in essa è umano è subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, il presente alla città futura alla quale tendiamo» (costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium 04.12.1963).
Sembra che alla Chiesa bruci ancora l’asserto marxista che la religione è l’oppio dei popoli, perché tira in ballo la vita eterna, come compensazione alla poco esaltante esistenza su questo rotolante pianeta. Ma non parlare, o parlar poco, di eternità vuol dire mettere tra parentesi il più originale e audace capitolo nel messaggio evangelico. Gesù ha detto: «Beati voi, poveri», ma non perché diventeranno benestanti; bensì «perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). Quindi perché hanno in prospettiva la beata eternità. L’ineliminabilità dei poveri è sancita con disillusione in Gv 12,8: «I poveri li avrete sempre con voi».
E’ chiaro che a chi si sbatte per la pagnotta quotidiana, l’eternità interessa poco. Ma interessa meno ancora perché non è sufficientemente richiamata, in quanto non si parla più né di paradiso né di inferno. Questa reticenza è a parer mio una delle cause che hanno fatto cadere in picchiata la presa della religione sulla sensibilità diffusa. A che serve la religione se non come rampa di lancio verso l’eternità? Ma che me ne faccio della religione, se l’eternità non è più tenuta in conto? E come faccio a tenerla in conto se non c’è nessuno che risvegli il mio dormiente pensiero su di essa, se non soltanto negli stereotipi sempre generosamente garantisti dei predicatori funebri?
Se il sacerdozio di Cristo è mediazione fra il tempo e l’eternità (cfr Ebr 6,20; 7,24), e questa è evaporata dalla mentalità odierna, come può a qualcuno venire in mente di farsi prete per esercitare quel sacerdozio? Se è sensata questa domanda, ben si vede come la reticenza dell’eternità abbia ricadute anche sul tema delle vocazioni. Essendo noi così distratti dall’eterno, è ovvio che al prete vengono chieste soprattutto iniziative di piena vitalità temporale, tipo certi estivi, e non interventi sulla fragilità esistenziale ormai affacciata sull’Aldilà, tipo sacramenti dei morenti. Ma per fare centri estivi non è necessario essere preti.
Sono paradossalmente in conflitto due virtù: la giustizia distributiva che deve garantire a ciascuno almeno il minimo vitale quaggiù; e la speranza che è l’occhio della Chiesa puntato sull’Aldilà. La priorità della Chiesa va certamente a quest’ultima, ma deve anche dimostrarlo.
Una risalita dall’abisso di banalità, di indifferentismo e di barbarie in cui siamo precipitati, si potrà seriamente realizzare se si riesce a rimettere «nel cuore degli uomini il senso dell’eternità» (cfr Qo 3,11). Come ultimo sintomo di quanto sin qui frignato sta proprio questo passo del Qoelet, che in ebraico menziona l’eternità, mentre la traduzione CEI 2008, a differenza della traduzione CEI 1974, rende «la durata dei tempi», censurando inopinatamente la parola “eternità”. E ciò è tristezza e tradimento.
Se poi qualcuno volesse sapere perché ce l’ho così tanto con l’eternità, lo accontento subito: perché il tempo è troppo veloce; perché i pochi giorni a me concessi (cfr Qo 6,12) sono passati in un momento; perché sono diventato vecchio a velocità supersonica; perché mi vedo l’eternità a un palmo di naso. Sto gustando l’ironia del «ed è subito sera» di Quasimodo. Amen.