Cristo nostro fratello?

Se Cristo è Figlio di Dio e noi per via battesimale diventiamo figli di Dio, ne discende che Cristo è nostro Fratello? Il Risorto, apparendo a Maria di Magdala (Gv 20,17), pratica un puntiglioso dosaggio dei possessivi, dicendole: «Salvo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Questa meticolosità espressiva, invece dello spontaneo “Padre nostro”, denota differenti livelli di filiazione, classificati in teologia come filiazione naturale, quella di Gesù, e filiazione adottiva, la nostra. Possiamo allora considerare Cristo nostro fratello? A occhio si direbbe di no.

Se non che il carmen doctum del Nuovo Testamento, che è la Lettera agli Ebrei (2,11), senza troppo ritegno annota: «… colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli». Quindi Gesù è da considerarsi nostro fratello, in quanto partecipe della nostra naturale umana. Resta ovvio che si tratta di una fraternità antropologica e non familiare. Egli stesso intende questa fraternità in senso alquanto ampio quando dice: «… chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50).

La liturgia invece è alquanto cauta nel dire Cristo nostro fratello. Lo possiamo capire: che lo dica Lui è un conto, che lo dica la Chiesa è un altro: sembra un eccesso di confidenza. Eppure nella primitiva edizione (1974) delle così dette preghiere eucaristiche del Sinodo Svizzero, terzo prefazio, si legge testualmente: «Tu ci hai donato tuo Figlio, Gesù Cristo, nostro fratello e redentore». Questo fratello attribuito a Cristo lo troviamo in tutte le traduzioni in lingue europee, compresa naturalmente la “canonizzazione” che ne ha fatta la CEI nel Messale Romano 1983 (p. 909). Quando poi nel 1991 queste preghiere eucaristiche, nate in italiano per la Svizzera italiana, sono state tradotte in latino in vista di una loro inserzione nel Missale Romanum 2002, Cristo ha smesso di essere “fratello” ed è diventato classicamente Dominum nel sintagma: «Quia Iesum Christum Filium tuum, / Dominum ac redemptorem nobis dedisti».

Il latino non rinuncia al suo spontaneo sussiego teologale, e fa bene perché il binomio “Signore e Redentore” è più usuale e meno sbilanciato di “fratello e redentore”. Un’eccessiva familiarità con Figlio di Dio pare fuori luogo. Signore è sempre più togato di fratello. Nell’ormai remoto 1974 si era ancora in coda al famigerato Sessantotto, con la sua maniacale tendenza riduzionistica del divino all’umano. Allora andava bene che Gesù potesse esser nostro fratello, ma si tratta di una sbavatura mia documentata prima di allora nella storia della liturgia, sempre molto riguardosa verso le prerogative divine del Redentore, la cui umanità tuttavia non è mai stata messa in dubbio dall’ortodossia cattolica. Ma dall’umanità far discendere il titolo di fratello, specie in un ambito autorevole come quello della liturgia, dopo un paio di decenni è parso azzardato: fratello in un certo senso sì, ma nessuno di noi è andato con Lui alla scuola materna. Meglio dunque Signore (Dominum), che non nega la condivisione della natura umana, e nel contempo riconosce rispettosamente le prerogative divine nella loro incommensurabile superiorità.

Secondo le indicazioni rigorosissime cui devono attenersi i traduttori del Missale Romanum 2002 è presso che certo che il Dominum nel passo in questione sarà rispettato e reso scrupolosamente con Signore, congedando definitivamente il dimesso “fratello”, retaggio di umile temperie liturgica.

Alberto Albertazzi