Vivere la fragilità nella luce della fede. Vasi di argilla o pane spezzato?

 
 

Relazione di sr. Luisita Quaglia – Festa della Vita Consacrata: Vercelli 3 febbraio 2013 

La riflessione sul tema della fragilità, considerata nella luce della fede, ha impegnato anzitutto me a meditare su un argomento che caratterizza costantemente la nostra esistenza, quella di tutti. Quanto condivido credo sia un semplice “raccogliere” e “pro-porre”, nel senso di mettere di fronte, ciò che ciascuno sperimenta nella propria vita e certamente conosce riguardo alla Parola di Dio, in quanto Parola che illumina, può illuminare, la dimensione fragile del nostro vivere. Non ho pretesa di dare soluzioni pratiche, non mi compete e non è questa la sede; semplicemente vorrei cercare, insieme, la possibilità di avere uno sguardo più sereno e fiducioso nelle situazioni in cui la fragilità fa sentire in modo più forte il suo peso.

Il tema della fragilità è un tema universale: ci riguarda e, nello stesso tempo, riguarda ogni creatura, ogni essere umano.

Credo sia importante e bello stare su un orizzonte che ci accomuna all’umanità tutta intera ( credente e non credente) e, per altro verso, ci accomuna a tutti coloro che credono in Gesù Cristo. Mi manterrò su questo registro pur dando un’attenzione particolare a quanto concerne la Vita religiosa.

Il considerare la nostra vita di “consacrate/i” su uno sfondo vasto aiuta a non rimanere incagliati nella preoccupazione eccessiva per noi stessi, per il destino delle nostre istituzioni, opere e presenze, in un tempo di crisi come il nostro, che accresce, per tutti, l’esperienza della fragilità. La coscienza della fragilità, tuttavia, può aprirci strade verso ciò che è essenziale: Possiamo continuare ad “immaginare il futuro nella creatività dello Spirito”?

I. FENOMENOLOGIA della FRAGILITÀ UMANA

In senso generale, il termine fragilità (dal latino frangere), denota qualcosa che può spezzarsi, che non ha resistenza e può [inter]rompersi; ma, lo stesso termine, può indicare qualcosa di delicato, che richiede cura. La fragilità richiama la cura come bisogno di riceverla e come appello ad offrirla.

Se fragile è ciò che si può spezzare e rompere, inter-rompere, si comprende come il culmine della fragilità sia la morte, ultima tappa della nostra esistenza personale, ma anche la morte che viviamo attraverso la perdita di persone care, lo sradicamento da situazioni e tempi cui è legato molto di noi, l’interruzione di relazioni affettivamente importanti, le limitazioni dei nostri desideri, della salute etc.

La fragilità rimanda insieme a una dimensione della persona e alla sua condizione nella storia, nel senso che il modo in cui la fragilità viene vissuta e valutata dipende molto dai propri valori di riferimento, dalla socio-cultura in cui si vive, dallo “spirito del tempo”. Ad esempio, nella cultura del post- moderno, ossia nella nostra, in cui pare abbia diritto di esistenza solo ciò che è forte, veloce, vincente, visibile (cultura dell’applauso), l’esperienza della fragilità è più temuta, spesso mascherata oppure spettacolarizzata. Nello stesso tempo la nostra stessa epoca ha migliori opportunità di ospitare le fragilità e di curarle: pensiamo ai progressi nei vari rami della medicina, delle scienze umane, della tecnica etc.; pensiamo al prolungarsi della vita, che crea sempre più situazioni in cui, ognuno fragile, può avere ancora cura di altre fragilità.

II. I “VOLTI” DELLA FRAGILITÀ

La fragilità ha molte espressioni, potremmo dire che ha molti volti. Essa racconta i nostri limiti, confina con le zone d’ombra della nostra vita, è conseguenza di qualcosa che manca, ma si insinua anche nei nostri pregi o positività, nel senso che il proporsi come gratuiti in un mondo che non sempre e non in modo ovvio accorda accoglienza e riconoscimento, espone ad essere in posizione di debolezza anche quando si vivono atteggiamenti di fiducia, di dono e di speranza nell’altro. Si può parlare di esposizione del volto alla mercé degli altri, in quanto soggetti all’accoglienza parziale, alla non comprensione, alla critica, all’invidia, fino all’indifferenza, alla calunnia ed al rifiuto, come scrive il filosofo Lévinas: La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia: anche nel volto c’è una povertà essenziale […] il volto è esposto, minacciato.

Alcune fragilità riguardano la persona in sé. La vita di ogni uomo è misurata dalla nascita e dalla morte. Siamo come il fiore del campo, esseri di tempo, non ci siamo dati la vita, non possiamo darci l’immortalità. Siamo esposti agli imprevisti, a cose che accadono e stravolgono la nostra esistenza, ci cambiano i progetti ( Fragilità esistenziale). Siamo fragili a motivo di malattie, condizioni difficili di vita, di condizionamenti, che pesano sull’equilibrio della persona, labilità dell’amore. Siamo esposti a sbagliare, a peccare, a distruggere la vita anziché a promuoverla.

Il nostro stesso essere incompiuti ci rende fragili: “l’uomo non è mai nato né cresciuto del tutto, deve nascere continuamente, continuamente partorire se stesso, crearsi il proprio mondo, il proprio posto” in ogni tappa della vita (anche la terza e quarta età sono vita). Questa bellezza e fatica del nascere non è un percorso su strada rettilinea, incontra ostacoli, possibilità di sconfitta. In questo continuo nascere ogni età della vita, nei suoi passaggi, presenta fragilità tipiche, legate alle “crisi” di transito da una stagione all’altra dell’esistenza stessa e delle situazioni.

Siamo esposti alla fragilità spirituale, a motivo di deboli motivazioni di senso ( anche la questione del senso oggi perde di senso), di scelta, non tali da reggere impegni importanti e duraturi; siamo fragili davanti a Dio del quale ci sfugge il volto e la modalità di accesso. Nella fede conosciamo il dubbio, anche se il dubbio non indica sempre fragilità.

Alcune fragilità riguardano la vita collettiva- culturale -sociale, provocate da crisi di varia tipologia:

– Fragilità economica e politico – sociale dovuta all’instabilità, alla carenza di beni disponibili, legata alle condizioni di emarginazioni o a pregiudizi. Questo tipo di crisi oggi assorbe la quasi totalità dell’attenzione e rischia di lasciare in ombra crisi più profonde, che toccano dimensioni essenziali della nostra umanità

  • –  Fragilità della condizione attuale della religione in genere e del Cristianesimo in specie per cui c’è chi, paradossalmente, si domanda: siamo gli ultimi cristiani? Momento difficile, che stimola la ricerca e induce a riflettere con serietà anche sulla distinzione tra Cristianesimo e cristianità. Ossia tra ciò che costituisce il nucleo essenziale del Cristianesimo e le forme storiche in cui esso si è inculturato. Ci si domanda: Quale Cristianesimo sta morendo? Quale può e deve rinascere?

–  Fragilità della condizione attuale della Vita consacrata a causa della diminuzione numerica, dell’innalzamento dell’età media, dell’incalzare delle esigenze, cui spesso non si riesce più a rispondere, con la conseguenza del continuo doversi ritirare da attività e luoghi in cui tanto si è investito in relazioni e risorse di ogni genere. Anche a questo proposito, paradossalmente, ci si domanda: siamo gli ultimi religiosi?La fragilità che riguarda la vita religiosa risente della crisi generale, che coinvolge, in modi diversi, ogni parte del mondo, ogni strato della cultura. Siamo gli ultimi consacrati?. Anche questa domanda, che sicuramente inquieta (come potrebbe non farlo?) spinge a cercare risposte, a ripensare la questione della vita consacrata, a distinguere ciò che in essa è irrinunciabile, intramontabile e ciò che, poiché legato a condizioni storico-geografiche e culturali, potrebbe tramontare, senza che la vita di consacrazione nella speciale sequela di Cristo muoia. Quale modalità o quali modalità di vita religiosa stanno morendo? Quali potranno nascere?

Secondo il teologo Bruno Secondin: Di fatto oggi abbiamo più domande che soluzioni. Dobbiamo passare attraverso la crisi dell’imperfezione, della provvisorietà, dell’incertezza e delle soluzioni parziali. Passare attraverso la crisi equivale ad evitare soluzioni affrettate, ritorni a forme basate soprattutto sulle “norme” oppure fughe in avanti non soppesate in un serio discernimento.

III. FUGA DALLA FRAGILITÀ?

L’elenco delle nostre fragilità è lungo eppure certamente incompleto, in ogni caso rimanda alla radice da cui esse derivano: noi tutti siamo costituzionalmente fragili, perché creature. La fragilità fa parte dell’umano, rivela la nostra identità.
Non è possibile fuggire dalla fragilità, ignorarla sarebbe un errore, non cambierebbe la nostra situazione. Come osserva E. Zanoletti, Se crediamo di non essere fragili lo diventiamo di più, ma se sappiamo di esserlo, possiamo esserlo dignitosamente e stare dignitosamente di fronte alla fragilità di altri.
I tempi di crisi più profonde sono tempi in cui la fragilità si manifesta in forma più prepotente. La crisi, tuttavia, non equivale a morte, può essere una spinta di vita. Ogni crisi costituisce un bivio!
Possiamo chiuderci nell’angoscia, irrigidirci, murarci nei nostri limiti, dolori, peccati, sentirci vittime, fuggire da noi stessi per non pensare alle nostre miserie Possiamo accettare di stare dentro alla vulnerabilità, alla mortalità, al limite della nostra umanità, aprendo uno spiraglio perché entri luce dentro il buio, magari scoprendo che il buio stesso custodisce una luce:

La scelta di abitare il limite, non è sinonimo di fallimento o di impotenza, perché quando scegliamo di accettare il limite per amore, allora il limite diventa evento creativo ( Simone Weil ).

La fragilità va riconosciuta, accettata come parte della nostra identità, attraversata per aderire a chi veramente siamo, tuttavia, esplorata più da vicino, può suscitare anche in noi la domanda: chi ci salverà?
Nei racconti di Genesi ( 1-11 ) si parte da Adamo, il terroso, che è fragile, sbaglia, come tutti noi. Ma Dio è sempre lì, quando l’uomo e la donna avvertono il loro limite (si avvertono nudi) Egli li veste. Adamo ed Eva sono consapevoli di essere nudi, fragili, ma sono vestiti da Dio, perciò possono stare nel mondo responsabilmente. Dio copre l’uomo, perché egli non può reggere la totale esposizione di sé, è un’onnipotenza che non ci possiamo permettere. (cfr. E. Zanoletti)

Il teologo Viennese Kurt Appel, in una originale lettura del libro della Genesi, interpreta il settimo giorno, giorno del riposo di Dio, come giorno di festa, e si domanda: chi viene festeggiato nel settimo giorno? La sua risposta è che viene festeggiato anche l’uomo in quanto è e deve essere limitato, non deve essere Dio. Soltanto a Dio appartiene la vita, solo Lui può avere uno sguardo totale sul mondo. Dio festeggia la fragilità dell’uomo perché l’uomo non ha bisogno dello sguardo della totalità, sguardo di dominio, che limita e uccide l’altra persona. All’uomo basta una visione prospettica e questa è una “veste di grazia”.

Ancora secondo Kurt Appel, quando Dio rende mortale l’uomo, la mortalità è per lui una cosa molto amara, ma la morte in questo senso è anche il primo dono di Dio, che impedisce all’uomo stesso questo sguardo di dominazione. La morte è l’ultimo confine che viene donato all’uomo; se egli riuscisse a rendersi invulnerabile, intoccabile, avrebbe trionfato su Dio. Quando l’uomo vuole rendersi impermeabile, intoccabile, non limitato, non conosce più l’amabilità, non riesce a cogliere l’altro, ad ospitarlo. Al contrario, la fragilità, se accolta, ci può rendere più umani. Il teologo francese Maurice Bellet scrive: Che cosa resta quando non resta più nulla? Questo: che siamo umani verso gli esseri umani. Che tra di noi rimanga quel relazionarci che ci rende uomini.

IV. HA CONOSCIUTO LA NOSTRA DEBOLEZZA

Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà (2 Cor 8,9).

Dio si prende cura dell’uomo fin dalle origini, e tutta la storia di Israele ne è testimonianza: Egli ha “conosciuto” la condizione di Israele, ed è sceso per porsi nel luogo di oppressione, soffrendo con il suo popolo. Dio, nella storia, mostra la sua potenza di risurrezione nella debolezza della croce. Il Suo Volto ci è rivelato in pienezza attraverso il Figlio, Gesù Cristo, Verbo incarnato. La croce è il luogo di una esposizione totale.

L’istruzione della congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica invita a “Ripartire da Cristo”. Questo invito riguarda il ritorno alla sorgente dell’amore, che ci ha affascinati e condotti a seguirlo. Con Lui possiamo vivere e attraversare anche la fragilità non rimanendone distrutti come vasi di argilla andati in frantumi: “Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me” (Gal 2,20).[…] È questo amore che rende forti e coraggiosi, che infonde ardimento e fa tutto osare. ( cfr. Ripartire da Cristo, 22)

Poiché il mio discorso si rivolge a persone che hanno familiarità con il Vangelo, accenno soltanto ad alcuni passaggi, che mettono in luce come Gesù, dall’inizio alla fine della sua vita, sia vissuto nella fragilità. Egli è esposto alla possibilità della tentazione, benché non lo vediamo mai cadere nel male morale; condivide i limiti della cultura del suo tempo, gli usi, i costumi, le leggi; nelle relazioni con le persone si espone con trasparenza, senza timori, né reticenze, osando manifestare la propria debolezza e povertà: dammi da bere, chiede alla donna di Samaria. In Gesù l’apertura a rapporti autentici con ogni tipo di persone diventa, sempre in forza dello Spirito, esperienza di rigenerazione ed di riconciliazione di chi è disponibile: chi lo incontra può riconciliarsi con la propria fragilità.
La ‘risposta’ di Gesù alla sofferenza, al dolore, al patire dell’uomo è una risposta pratica: egli tocca, bagna, guarisce, impone le mani; si espone alle critiche, alle calunnie: mangia con i pubblicani e con i peccatori; fa appello alla libertà senza costringere; non forza le situazioni, accettandone con pazienza l’inadeguatezza (cfr. parabola del grano e della zizzania).

Il pianto di Gesù alla morte di Lazzaro è un tratto di fragilità aperto alla speranza, ma nell’imminenza della sua morte non viene preservato dall’angoscia; prima dell’esperienza della pasqua dimostra chiaramente di avere scelto la via della debolezza e della fragilità, quella che passa per la croce e la morte. Non l’esenzione dalla fragilità, ma il suo attraversamento nel segno della fedeltà al Padre, costituisce il compimento umano, realizzato da Gesù e donatoci come salvezza. Egli, il Risorto, si dà a riconoscere mostrando le ferite della passione e della morte: mostrò loro le mani e il costato ( Gv 20,20); guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io ( Lc 24,39 ).

Lo Spirito non toglie la fragilità, ma la rende luogo di manifestazione della sua potenza, che apre alla relazione e al dono.

V. MISTERO EUCARISTICO e FRAGILITÀ

La risposta che Gesù ha dato all’appello della fragilità umana, soprattutto nel dolore, nella debolezza, nella malattia, è quanto noi celebriamo nell’Eucarestia.

Nell’ultima Cena, il Figlio di Dio decide volontariamente di andare fino infondo ( cfr. Gv 13,1: li amò fino alla fine) nel dono di sé, fino a sopportare l’incomprensione, l’incredulità, il rifiuto, l’abbandono, la solitudine, il tradimento, anche dei discepoli che lui aveva scelto. Questo dono di sé non fu però salvifico perché era il culmine dell’umana sofferenza, ma perché il Figlio di Dio ci salva

soffrendo per amore e donandosi a nostro favore.

a. Vasi di argilla o pane spezzato?

Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9).

Il dono di Dio è gratuito e incondizionato, ma non può attuarsi se non viene accolto. Noi non siamo più forti di altri nell’affrontare le traversie che la vita non risparmia. Non deve spaventarci il sentirci deboli. Occorre che ci lasciamo ancora dire dal Signore: <Ti basta la mia grazia >.

Ciò che è in gioco nella fragilità è la decisione della fede come affidamento incondizionato, nella quale si accoglie il dono della salvezza, ci si lascia plasmare da Dio, accettando di convertirci.
La fragilità nelle sue varie forme , è tempo di prova, nel quale l’uomo deve decidere di sé non solo nei suoi rapporti quotidiani, ma anche e radicalmente, del suo rapporto con Dio: decisione difficile, perché la forza del dolore e del patire ‘costringe’ alla drammatica presa di coscienza della precarietà e vulnerabilità della vita. L’esperienza della fragilità pone la questione pratica della affidabilità di Dio.

Gesù non è venuto a spiegare il senso della sofferenza, della fragilità e del patire umano in tutte le sue forme, ma per farsi prossimo ad esse, annunciando così la prossimità e la sollecitudine di Dio nei confronti dell’uomo e chiede a noi di seguirlo: “Fate questo in memoria di me”. La fede è un libero e incondizionato affidamento, che si decide nelle forme concrete della vita: La fede cristiana che ha al suo cuore la rivelazione inaudita del Dio fatto uomo, carne fragile, non può ritenere estraneo a sé nulla di ciò che è umano. ( L. Manicardi).

b. Dalla fragilità sofferta alla speranza nella debolezza.

In particolare le situazioni di fragilità più impreviste e dolorose, chiamano in causa la nostra fede, speranza, carità. La Chiesa, e noi siamo chiesa, ubbidisce al comando di Gesù: “Fate questo in memoria di me”, celebrando l’Eucarestia come rito, ma anche come impegno di vita, che si esprime nella cura, come forma della fede che salva, nella prossimità di gesti e parole, nella pazienza, che è “carne della speranza”. Il tempo della fragilità può essere il tempo della speranza per la quale il credente affida il compimento del suo desiderio a Colui che solo sa come esaudire le sue invocazioni. Questo atteggiamento richiede che ci si metta nella disposizione di lasciarsi istruire da ciò che si patisce, come viene detto in Eb 5,8 a proposito di Gesù: Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì.

Lo Spirito non cancella la nostra fragilità, non ci sottrae ad essa, ma ci abilita a fare delle nostre ferite luoghi di comprensione, di ascolto, di solidarietà con gli altri, di apertura alla speranza. Scrive il teologo Giovanni Girardi:

Il “pane spezzato” dell’Eucarestia come memoria della passione, modo di presenza del Risorto tra noi e anticipo del banchetto escatologico è icona reale della fragilità vissuta nella fede, la ‘necessaria fragilità’ dell’agape. L’icona del pane spezzato, fragilità e potenza del libero dono di sé per la salvezza del mondo, accompagna quotidianamente la vita della Chiesa e sostiene il cammino dei cristiani. Quel pane, se non è fragile ( fractio panis ) non è commestibile. Ma il suo spezzarsi non significa soccombere o rompersi. Realizza piuttosto un donarsi esponendosi alla libertà per alimentarla. La fragilità diventa così il luogo del dono che libera possibilità inesplorate, perché ci colloca nel punto di vista adeguato a cogliere e sperimentare l’agire di Dio nella storia.

La debolezza di Dio invita l’uomo ad uscire dall’egocentrismo, dall’autosufficienza, dall’illusione dell’onnipotenza e a farsi carico della sofferenza del mondo, ad assumersi la responsabilità nei confronti della storia, ad aprirsi veramente alla relazione e al perdono. In forza della fede, per grazia dello Spirito, anche nelle condizioni estreme di debolezza e di sofferenza è possibile portare frutto. La preghiera anonima, scritta su un foglio sgualcito nel campo di sterminio di Rawesbrach, è altissima testimonianza di questa possibilità:

Signore, ricordati non solo degli uomini di buona volontà, ma anche di quelli di cattiva volontà. Non ricordarti di tutte le sofferenze che ci hanno inflitto ma ricordati dei frutti che noi abbiamo portato, grazie alla nostra sofferenza. In questa sofferenza estrema di questo campo noi abbiamo portato frutti di fraternità, di lealtà, coraggio, generosità, grandezza di cuore che sono fioriti qui da ciò che noi abbiamo sofferto, e quando questi uomini, i nostri nemici aguzzini giungeranno al giudizio, fa che tutti questi frutti che noi abbiamo fatto nascere siano per loro perdono. Amen.

A modo di conclusione 

Ho sottolineato all’inizio che il tema della fragilità riguarda tutti e in questa linea ho condotto, sostanzialmente, la mia riflessione.
Sintetizzando possiamo dire che il mondo della fragilità è un mondo di debolezza e di risorse. La condizione di vulnerabilità e debolezza, dimensione costitutiva della nostra identità umana, lascia intravvedere aperture possibili alla novità dell’azione di Dio, che riscatta e porta compimento la “sua” opera.

G. Ferretti in Essere Cristiani Oggi, enunciando ipotesi fondate circa il cristianesimo del futuro, afferma che esso <dovrà caratterizzarsi per la sua inestinguibile <nostalgia del totalmente altro>. Credo che, affinché tale nostalgia possa non estinguersi, occorre vi siano segni concreti della presenza di Dio nel mondo, della presenza di Cristo, della speranza nel Regno futuro, perché si possa riconoscere che Dio è il Signore, colui al quale ci si può dedicare in totalità, mediante una sequela che investe tutta la persona e tutto il tempo della vita. Questo è sicuramente compito della vita religiosa del futuro, qualunque forma essa assuma. Come afferma l’esortazione apostolica, la vita consacrata è, e può divenire ancor più, una delle tracce concrete che la Trinità lascia nella storia, perché gli uomini – pur nella loro fragilità – possano avvertire il fascino e la nostalgia della bellezza divina (cfr. Vita consecrata, 20 b).

Nella fragilità il cristiano e ogni persona consacrata, può trovare senso alla sua esistenza ed essere testimone per il mondo, attingendo alla speranza, che sgorga dal Cristo –Uomo -Dio, Crocifisso e Risorto. Sta a ciascuno, a ciascuna istituzione, scegliere se restare soltanto fragile argilla o impegnarsi a divenire, per grazia, pane spezzato e distribuito per molti.

Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione, piangono per aiuto, chiedono felicità e pane, salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.

Così fan tutti, tutti, cristiani e pagani. Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto, né pane, lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.

I cristiani stanno vicini a Dio nella sua sofferenza. Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione, sazia il corpo e l’anima del suo pane, muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona.

(Dietrich Bonhoeffer)