XXIII domenica tempo ordinario Lc 14,25-33
– La via dei discepoli di Cristo –
a cura di Mons. Sergio Salvini –
Leggendo seriamente la pagina evangelica di questa domenica e prendendola radicalmente come proposta di vita, c’è da restare sconcertati nel momento in cui veniamo sollecitati a odiare ciò che è naturalmente amabile, a disprezzare ciò che, sino a prova contraria, è dono di Dio, concentrando, invece, la nostra predilezione sulla Croce.
Gesù non era un folle, anzi, è stato un campione insuperato di equilibrio e quando avanza pretese tanto radicali, in fondo, non fa altro che ricordarci come nella vita vi sia, e vi debba essere, per tutti una gerarchia di valori; per mantenersi fedeli ad essa, occorre mettere in previsione sacrifici forti, rinunce eroiche, tagli drastici nei confronti di tutto ciò che impedisce la coerenza e la fedeltà. Il bene è una «grazia a caro prezzo», direbbe Bonhoeffer. Se esiste qualcuno in grado di spiegare quanto alto sia il prezzo è proprio Gesù Cristo, che non con oro o argento ci ha riscattati alla nostra vita vuota. Essere suoi discepoli è il titolo onorifico più alto cui un uomo possa ambire. Essere suoi discepoli è la più elevata qualità di vita che si possa conseguire. Essere suoi discepoli è la massima realizzazione della nostra umanità.
Evidentemente traguardi così elevati non sono conseguibili da un giorno all’altro. Esiste una gradualità di ascesi, offertaci come possibilità di raggiungere le vette più impervie: è l’Eucaristia della domenica, durante la quale, assimilando la Parola di Gesù continuamente seminata e nutrendoci del suo Corpo, della sua vita, del suo esempio di donazione, apprendiamo l’arte di amare, l’arte della coerenza, l’arte della fedeltà, l’arte del sacrificio, l’arte dell’oblazione, l’arte della gratuità, l’arte della rinunzia, l’arte del discernimento e della classificazione dei valori, l’arte del riconoscimento di quelli “non negoziabili”, l’arte della sapienza. Senza l’Eucaristia si impone l’impero della stoltezza a discapito del Regno di Dio.
Quando l’Eucaristia viene collocata al centro che le compete, la Sapienza diviene patrimonio di strati sempre più larghi di umanità. Oggi, uno dei verbi tramontati, sino a divenire desueti nel frasario e nelle abitudini della gente, è “rinunciare”. Abituati come siamo all’esaudimento anche del capriccio più scriteriato, abbiamo reso tale verbo sinonimo di un aggettivo: “disumano”. Rinunciare ha assunto il significato di “abdicare” all’umanità e, quindi, non si deve rinunciare a niente.
Probabilmente ci siamo dimenticati che la porta di accesso al Battesimo è costituita da una sorta di architrave, in tre domande che hanno un’unica risposta: Rinunciate al peccato, per vivere nella libertà dei figli di Dio? Rinunciate alle seduzioni del male, per non lasciarvi dominare dal peccato? Rinunciate a satana, origine e causa di ogni peccato? La sola risposta è: Rinuncio!
La rinuncia, o l’ascesi, non sono dimensioni disumane o antiumane, retaggio di secoli impropriamente chiamati oscuri, sono, piuttosto, la scuola di robustezza interiore, di fortezza spirituale, di vigore umano, mancando la quale ci si ritrova incapaci di fare scelte, di assumere impegni continuativi, di seguire opzioni fondamentali radicali e definitive.
Senza la rinuncia tutto diviene aleatorio, persino la nostra umanità, e ci ritroviamo smarriti dentro un mondo in cui la parola non ha più peso, l’onore è risibile, la fedeltà viene scambiata per difetto, la coerenza viene contrabbandata per intransigenza e l’identità per fondamentalismo.