Desolazione
a cura di Mons. Alberto Albertazzi
alberipazzi@gmail.com
Eccomi ancora a ragionare di funerali, anche se di recente mi sono beccato una gentile reprimenda da una signora per abuso di prosa funebre. Ma non si può far finta di niente alla notizia di un sedicenne che si scaraventa giù dal balcone. Di mezzo c’è la droga nelle due ricorrenti manifestazioni odierne: quella classica, fatta di assunzione di sostanze sballanti, e quella virtuale fatta di uso furente del cellulare, spasmodicamente digitato dagli adolescenti. Premetto che non ho mai capito perché il mondo di cellulari e internet, fra loro stretti parenti, sia qualificato “virtuale”, quando non riesco a trovarci nulla di virtuoso. Evidentemente la virtù si può prendere in due significati diversi.
Ci può essere anche uno sballo visivo oltre a quello tradizionale a base di eroina e simili. Se la droga fa scattare dipendenza al punto di non poterne fare a meno, non è dipendenza anche quella dal cellulare, divenuto per moltissimi inseparabile compagno di viaggio? Da inesperto dell’una e dell’altra, non saprei dire quale sia più perversa e vincolante. Forse forse quella da cellulare, molto più accessibile: ormai lo hanno tutti, anche quelli che vengono a suonare il mio campanello per farsi pagare la bolletta della luce. La droga costa un patrimonio ed è anche più devastante perché sconquassa non solo il cervello – come fa il cellulare se assunto come inseparabile aggeggio -, ma anche il fisico procurando seri malanni, da ospedale, da manicomio, da galera, da cimitero. Non so come facciamo a vivere in pace con se stessi quelli che la mettono in circolazione, sapendo che per suo effetto, seppure indiretto, un adolescente si è gettato dal terzo piano. Purtroppo non è detto che questo gesto estremo non faccia scattare reazioni a catena, forse anche per eccesso di spettacolarizzazione mediatica. E’ già capitato in altre circostanze. Vi ricordate, quando ancora c’era la naia, l’inquietante stagione – anni ’80 – dei suicidi fra militari di leva? Mi toccò celebrare il funerale di un militare che si era gettato sotto il treno. Penso che sia stato il funerale meno allegro del mio ormai lungo ministero sacerdotale.
I ragazzi di oggi non hanno più difese. Sono in balia dell’andazzo dei tempi, per loro particolarmente ostili. La famiglia è ormai a brandelli e con improvvide misure legislative la si demolisce sempre più. La scuola fa quello che può, ma sempre aggirando il più formidabile difensore dell’uomo in ogni sua età e circostanza: DIO, considerato sempre come un ingombro dal laicismo arrogante e imperante. Il riferimento a Lui è ormai largamente estenuato, al punto che omelie a funerali di grande impatto mediatico degenerano in comizi o in stucchevoli arringhe social-giudiziarie. Noi parroci, imbelli e faciloni, continuiamo a fare uno spreco sconsiderato di cresime, già sapendo che nella stragrande maggioranza non andranno a buon fine in fatto di tenuta cristiana. E la Conferenza Episcopale non si sveglia per darci delle dritte coraggiose e innovative, perché troppo impegnata a soffiare sul collo ai politici. Che fine hanno fatto tutte le cresime che ho autorizzato in questi anni? Se si scarta per principio la componente religiosa nell’educazione, o la si prende sottogamba, non possiamo che avere gli effetti che stiamo vedendo e piangendo.
In un paese, che cominciava a essere pesantemente investito del problema droga, l’amministrazione comunale promosse una tavola rotonda sul tema. Il sindaco parlò da sindaco neo-eletto. La droga stava dilagando per l’insipienza della precedente amministrazione, che a parer suo non aveva fatto niente per i ragazzi: non una palestra, non un campo sportivo, non un luogo in ritrovo. Il parroco parlò da parroco: «Possiamo dare ai nostri ragazzi tutto quello che vogliamo e vogliono, ma se non ficchiamo nelle loro meningi un’idea più forte della droga, saranno sempre sconfitti». Ricordo ancora le parole terminali del suo mirato pistolotto (ero presente anch’io) rivolte ai genitori: «Riempite di Dio i vostri figli e non avrete nulla da temere!». Questo “pieno di Dio” non è stato fatto e alcuni giovani sono morti con la siringa nel braccio.
Un sedicenne suicida è un fallimento per l’intera società, per la nostra cultura, per i nostri metodi educativi, se ne pratichiamo ancora qualcuno. In tempi più romantici quella era l’età dei sogni, delle speranze, dei progetti magari anche fantasiosi, ma in ogni caso pieni di luce e non tenebrosi e disperati come un auto-proiezione dal terzo piano. Si poteva morire in giovane età per incidente o altra disgrazia. Ma non per suicidio motivato da droga scoperta in famiglia.
Se una madre arriva a denunciare il figlio minorenne, vuol dire che fra i due non c’era più comunicazione. E la madre, più disperata del figlio, ha creduto di rimetterlo in riga facendo intervenire le fiamme gialle. E’ le logica degli estremi rimedi ai mali estremi. Ma in questo caso il male conclusivo ha scavalcato gli estremi rimedi e la ringhiera del balcone. Atto improvviso o premeditato? Non lo potremo mai sapere.
FINE DELLA VITA
Di questi tempi si ode gran schiamazzo mediatico intorno alla fine della vita. Fino a che livello si può spingere il supporto medico-sanitario? Quando si può staccare la spina? Come si può valutare il grado di consapevolezza dell’interessato? Come può interferire il medico curante? Eccetera. Su Avvenire di oggi (23 febbraio) alla questione è dedicata un’intera pagina. La faccenda è decisamente complessa da ogni punto di vista. Forse la si può semplificare con una limpida osservazione: la vita c’è finché l’interessato riesce a tirare avanti con i suoi mezzi. Non c’è già più quando la permanenza in vita è garantita da attrezzature sanitarie. Il prolungamento artificiale della vita mi sembra un barare al gioco. Più di altro non dico perché non sono esperto sulla questione. Mi pare solo che quanto appena esposto risponda almeno a ovvietà e buon senso.
Ciò che mi ha deluso, per non dire persino indignato, è che il quotidiano della Conferenze Episcopale Italiana – Avvenire per l’appunto – ragionando di fine di vita su intera pagina con interviste, valutazioni e considerazioni etico-sanitarie di vari esperti, leggi, leggine e proposte di legge, non abbia fatto alcuna menzione del Viatico. Se neppure un giornale cattolico lo menziona quando ricorrono le circostanze, tagliamo corto e diciamo che il Viatico non esiste più o che viene somministrato per flebo. Come sarebbe stato bene al centro di quella pagina, tutta mirata sul fine della vita, un riferimento al Viatico quale risorsa di fede per chiudere definitivamente gli occhi elevandosi al di sopra del tormentoso squallore “ossigen-flebo-sanitario”. Qualunque cappellano di ospedale avrebbe potuto scriverlo. Forse il redattore non ci ha pensato. Ma sorprende che non ci abbia pensato il redattore di un quotidiano cattolico impegnato a discettare sulla vita umana, sacra di natura sua, e ancora più sacra nelle fasi terminali.
La laicizzazione strisciante tacita ogni riferimento religioso anche in sede appropriata e su questioni pertinenti. E’ la solita storia: il momento religioso deve essere fatto fuori, perché ingombrante. Vedi l’ora di religione nella Repubblica di San Marino, che da parte di alcuni si vorrebbe sostituire con imprecisate discipline laiche.
CONCLUSIONE
Mi accorgo che sono diventato un brotolone, ma i tempi come ben si vede sono poco allegri. Forse aveva ragione Gozzano dicendo: «Il meglio d’altri tempi non era che la nostra giovinezza» …