Rasocielo
a cura di Mons. Alberto Albertazzi
alberipazzi@gmail.com
C’è bisogno di disincagliarci dal nostro continuo rasoterra e il Natale imminente ce ne fornisce l’opportunità. Purché sia un Natale schietto e di origine controllata, non affaccendato e frenetico, come ormai è diventato. L’autentica fisionomia del Natale la troviamo nei Vangeli. Il resto è festa d’inverno, come un fantasioso dirigente scolastico propose di chiamare il Natale, per la solita mania di non discriminare. Babbo Natale è festa d’inverno, le sue renne pure, anche la fregola “regalizia”, per la quale i supermercati hanno già cominciato a scaldare i muscoli. Lo è pure l’albero di Natale, quantunque di remota origine cristiana a elevata latitudine geografica. Oso classificare componente di festa d’inverno anche il presepio, benché ci aiuti a immaginare l’evento. Ma all’origine di molti presepi – non raramente cervellotici e quasi in gara di originalità fra loro – mi sembra di scorgere più un’esaltazione dell’inventiva umana che la fibra autentica delle fede.
Il vero Natale è racchiuso in questa breve formula che tutti conosciamo (Gv 1,14):
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato
la sua gloria.
E’ una formula ben calibrata, che assegna a ciascuno il suo. Dichiara infatti ciò che ha fatto il Verbo e ciò che compete a noi. Il Verbo ha assunto carrozzeria umana e ha preso residenza fra noi. Noi, dal canto nostro, abbiamo contemplato la sua gloria. Ciò si è inverato per la gente di allora da quelle parti. Noi, postumi e lontani, dobbiamo accontentarci di tracce della sua gloria, che decifriamo nella misura in cui ci accostiamo con fede alla sua parola e alla liturgia.
In questa formula natalizia abbiamo la congiunzione di due estremi, tra loro contrapposti come più non si potrebbe. Il Verbo: “chi era costui?”. E’ ovvio che non si tratta della nota scheggia linguistica esprimente azione. Il greco di Giovanni ha logos che vuol dire parola, in latino verbum: solidificatosi tradizionalmente in tutte le Bibbie nel famoso Verbo, a noi fornito anche dalla traduzione CEI 2008, sopra riportata.
Ma logos significa anche pensiero. Mi suggestiona di più “il pensiero si fece carne” che non “la parola si fece carne”. Nel pensiero abbiamo l’assoluta immaterialità, la rarefazione suprema. Nella parola abbiamo sonorità timpanica, quindi una certa parentela con la carne, trovandosi il timpano nell’orecchio che è fatto di carne, cartilagine e orecchini. Il pensiero che si fa carne mi sembra dunque un’iniziativa ancora più sovrumana, perché è immaterialità assoluta che si coniuga con la crassa tridimensionalità gravitazionale tipica di ogni corpo fisico, a qualunque specie appartenga. In questa formula del Natale scorgiamo la grandiosità imprevedibile della fantasia divina. Il pensiero in questione non è il nostro, in qualche modo materiale lui pure, perché elaborato da cellule cerebrali. Qui si tratta del pensiero divino, non originato da una blindata scatola cranica, ma librantesi nell’eterno e nell’immenso. E questo pensiero si è fatto carne!
Notiamo con quanta cura Giovanni ha selezionato le parole, peraltro ordinarie nel nostro linguaggio, ma sotto la sua penna acquistano altra risonanza. Perché dice che il Verbo si è fatto carne e non che si è fatto uomo, anche se effettivamente uomo si è fatto? Io penso che abbia fatto la scelta “carnacea” per divaricare ancora più gli estremi. Se avesse detto “il pensiero si fece uomo”, le distanze si sarebbero ridotte, perché l’uomo è un bipede pensante. Ci sarebbe quindi stato solo una sorta di travaso da pensiero a pensiero. Invece la carne, di cui l’uomo è congegnato, connota soltanto l’anatomia umana senza necessariamente implicare il pensiero. La carne in una cassa da morto, pur rimanendo umana, non è più pensante.
Giovanni ha voluto dare risalto a questo precipitarsi di Dio verso la carnalità umana. Anche se di fatto l’Essere che ne è risultato ha tutti i requisiti per essere riconosciuto vero Dio, ma anche vero uomo. Un Dio dunque rasoterra.
E ora veniamo a noi, che «abbiamo contemplato la sua gloria». Se dà del filo da torcere il significato del Verbo, che sopra abbiamo cercato di sgomitolare, non ne dà di meno il termine “gloria”. Anche a proposito di questa ci è necessario un “passamano linguistico”, partendo dall’ebraico dell’Antico Testamento, come mi arrabatto a spiegare nel riquadro sottostante.
In questa remota stagione biblica kavod, frequentemente reso con gloria, indica una presenza gravosa, oppressiva, suprema, smisurata, trascendente, che Mosè chiese di poter vedere (Es 33,18) ma non gli fu concesso, se non in maniera alquanto sfuocata. Ciò che solitamente si traduce con “santo” (in ebraico qadosh), in origine non ha che fare con bontà eccelsa, bensì con separatezza dovuta a incommensurabile superiorità. Quando i serafini del profeta Isaia (6,3) acclamano «Santo santo, santo il Signore Dio degli eserciti», ne enunciano la smisurata superiorità, e con tale significato dobbiamo cantare durante la messa. Anche il termine greco aghios, reso parimenti con santo, secondo fantasiose ma simpatiche etimologie, verrebbe da a-gheinos, “non terrestre”: dunque totalmente altro, secondo il suggestivo modo di dire del teologo K. Bart.
Per rendere idea mastodontica della schiacciante superiorità di Dio (cfr 1 Pt 5,6), il greco ha scomodato doxa, solitamente resa con “gloria” in latino e in italiano. Gloria dunque non nel senso di trionfo dopo grandi imprese: quest’ultima è soltanto una “glorietta” umana da due soldi che, se va perduta, provoca afflizione nazionale, come è capitato recentemente prendendo a calci un pallone. La gloria di Dio è il suo stesso essere incomparabilmente superiore alla più elevata capacità umana di immaginazione. Dobbiamo accontentarci di dire «gloria a Dio nell’alto dei cieli», caricando la parola gloria della sua massima potenzialità, come avverte Dante mettendo piede in paradiso (I 1-9):
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose ridire
né sa né può chi di là su discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
In parole più semplici, Dante è sopraffatto dalla gloria di Dio, in modo così travolgente che non riesce a ricordare e, di conseguenza, a comunicare ciò che ha visto.
Ce n’è però quanto basta per captare che il Verbo si è fatto carne, quindi rasoterra, per sollevare noi a condizione “raso-cielo”. Se il Natale è colto in questo movimento di saliscendi (cfr Ef 4,10), allora si celebra il Natale cristiano. Diversamente si rottami pure il termine Natale in favore di “festa d’inverno”, magari rinforzata da remoti ingredienti cristiani inclusivi di quella carnevalata insopportabile che è il presepio vivente.
La liturgia spalanca splendide prospettive sul Natale, esprimendone il vero traguardo in un prefazio della messa:
Nel mistero del Verbo incarnato
è apparsa agli occhi della nostra mente
la luce nuova del tuo fulgore,
perché conoscendo Dio visibilmente,
per mezzo siamo rapiti
all’amore delle realtà invisibili.
Realtà invisibili, che non possiamo perdere di vista, come avverte san Paolo «perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne» (2 Cor 4,18).