Tipologie funebri
a cura di Mons. Alberto Albertazzi
alberipazzi@gmail.com
Tornare ogni tanto sulla morte fa bene ai morituri, è per loro un ottimo allenamento. Ho un buon motivo per tornarci sopra, dopo una recente esperienza funebre, che mi sarà difficile dimenticare.
Tutti siamo abituati ai funerali tradizionali, in cassa da morto classica, portata da quattro eleganti nerboruti che se la caricano sulle spalle nei vari spostamenti rituali. Le casse da morto tradizionali fra loro differiscono di poco: uguali nel colore austero e nella forma; lievemente diverse nella decorazione lignea, diversissime nel contenuto in quanto in esse si va a finire una volta sola. In queste casse vengono confezionati defunti divenuti tali in maggior età. Si vedono talora nei telegiornali biancheggiare casse da morto, contenenti donzelle tragicamente e violentemente defunte. E’ un modo cromatico per contrapporre l’innocenza della vittima alla brutalità dell’assassino.
Ma ci sono altre casse da morto di un biancore ancora più struggente: quelle dei bambini per i quali la nascita è venuta a coincidere con la morte, inverando il detto che gli estremi si toccano. Mi è capitato recentemente a Crevacuore di officiare le imbarazzanti esequie di una bimba morta a pochi giorni dalla nascita. Le ho dette imbarazzanti, perché i testi liturgici sono pensati per adulti e, con un certo imbarazzo letterario, adattati all’infante defunto.
Le esequie differiscono più dal contorno che dal contenuto, che è uno solo in ogni caso: la morte. Le casse da morto tradizionali vengono trasportate a spalla da vigorosi necrofori, in grado di portarne con dignità atletica il peso lordo, ossia la cassa e il suo ospite. Nel caso di un infante ne basta invece uno solo che, nel nostro caso, ha depositato il minuscolo sarcofago bianco su un elegante tavolino da salotto traferito in chiesa. In questa struggente tipologia esequiale il bianco è il colore dominante: bianca la cassa, bianco pure il colore liturgico del sacerdote officiante invece del severo viola consueto. Nell’immaginario diffuso, supportato dalla Bibbia (1), il bianco è il colore angelico-paradisiaco per eccellenza. Il neonato morto viene classificato angelo pure dagli atei e dagli indifferenti.
Il funerale da cui prendo spunto risultava ancora più struggente perché nella stessa chiesa esattamente il giorno prima si era officiato il funerale di un novantenne, per il quale, pur con tutto il rispetto e la solidarietà ai parenti, non era il caso di spargere lacrime, e non si son sparse. E la settimana funebre si è conclusa col funerale di una novantacinquenne. Dalla vita che cosa si può pretendere di più in fatto di longevità? Fra i due longevissimi si è inserita questa rapidità mortuaria, che ha soppresso chi nella vita, acquisito un minimo di consapevolezza, poteva sperare e sorridervi. Pochi giorni soltanto invece sembrano una frode all’esistenza, almeno secondo il nostro modo terra terra di pensare. E’ pur vero che Arianna – così si chiamava la bimba – è nata come tutti nel pianto (cfr Sap 7,3) (2), e probabilmente non ha neanche fatto in tempo a sorridere. Ma non ha neanche fatto in tempo a peccare, rendendo per tal motivo vane le preghiere per lei.
Si prega per i vivi e per le loro necessità: malattia e disagi vari. Si prega per i defunti che in vita furono esperti di peccato, perché si possa abbreviare la loro permanenza in purgatorio. Si prega pure per conservarne il ricordo, inverando in tal modo un teorema laico del Foscolo: «… si vive con l’amico estinto, / e l’estinto con noi …» (3). Ma che senso ha pregare per un infante che ha bypassato il purgatorio, non avendo nulla da scontare e che forse – azzardo anche questa scusandomi se offendo sensibilità genitoriali – non ha neppure fatto in tempo a lasciare duraturo ricordo di se? In queste circostanze si prega, ma si prega per i genitori, perché riescano velocemente a superare il trauma patito, presumo, soprattutto dalla madre che praticamente, dopo avere ospitato in sé la bimba per nove mesi, l’ha dovuta travasare in una cassa da morto, seppure ingentilita dal colore bianco, invece che in una eventuale incubatrice per tonificarla in vita.
Il filosofo esistenzialista Heidegger (1889-1776) parlava della vita per la morte, non senza cerebrali precisazioni; e così dicendo aveva ragione. Ma in questo caso dovremmo parlare di nascita per la morte. Accettiamo pure, ma cristianamente dobbiamo fare un passo più in là: non la nascita per la morte, ma la nascita per una rinascita, accogliendo il magistero di san Paolo (Rom 6,4):
Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.
Arianna probabilmente non ha fatto a tempo a sorridere, ma ha fatto a tempo a essere battezzata. Ciò è molto più importante per chi nasce candidato a morte immediata.
In questo funerale così insolito, così da non replicarsi per troppe evidenti ragioni, il momento supremo e più struggente fu quando il padre stesso con mossa perfino maestosa collocò la mini-bara nel loculo.
E’ vero ciò che dice il Salmo 39,6: «Sì, è solo un soffio ogni uomo che vive». E questo soffio è stato particolarmente rapido per Arianna, che ha visto la luce, ha respirato per brevissimo tempo l’atmosfera di questo mondo. E poi la «sua gentil voce di pianto» (Carducci) iniziale si è incupita verso la morte, dando forse al pianto stesso un’altra inconsapevole tonalità, inverante una dichiarazione ancora del Leopardi di cui, avendola riscoperta di recente, assaporo l’impietosa verità: «E’ funesto a chi nasce il dì natale» (4).
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1 At 1,10; Ap 3, 4-5; 3,18; 7,13; 19,14.
2 Cfr anche Leopardi: “Nasce l’uomo a fatica / ed è a rischio di morte il nascimento”, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 39-40.
3 Dei sepolcri, 32-33.
4 Cfr nota 2.