Qui bene cantat bis orat

 
 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi

alberipazzi@gmail.com

Chi canta bene prega due volte.

Detto attribuito a sant’Agostino († 430), indicante che il canto ben fatto raddoppia l’efficacia della preghiera. Pare che questo detto gli sia venuto in mente alla scuola di sant’Ambrogio, suo padrino o simile, che ha cominciato a porre le basi del canto nella liturgia latina. Il vescovo di Milano, Ambrogio († 397), ha composto alcuni inni liturgici tuttora in uso, che hanno avuto successo, tanto che l’autore passò alla storia come il padre dell’innografia latino-cristiana. Sono inni composti sulla metrica popolare del dimetro giambico.

La questione è di decidere che cosa significhi cantare bene per ottenere il raddoppio della preghiera. Lo stonato, che per definizione non canta bene, se cerca di esprimere la sua preghiera in canto, si deve accontentare di avere pregato una volta sola? Di primo acchito sembrerebbe di sì, ma forse si giunge a una conclusione superficiale. Perché il canto applicato alla preghiera non è soltanto un fatto di ugola ma anche e soprattutto di interiorità. Se poi si riesce a stabilire un connubio tra intonazione e condivisione interiore, l’affetto duplicante sarebbe assicurato e ne fruirebbero anche gli uditori.

Nella Bibbia il canto ha un rilievo non secondario. E’ disseminata di cantici che recano impennate liriche anche dove meno ce lo saremmo atteso (1). E i salmi sono il canzoniere biblico per antonomasia. Già il termine salmo evoca il canto. Trapaniamolo ora nella varie lingue per le quali è transitato. Nasce dall’ebraico mizmor che è uno strumento a corde di accompagnamento al salmo. Si travasa successivamente nel greco psalterion, che fa presto a diventare psalterium in latino, e di qui al nostro Salterio, denotante la collezione dei salmi (sono 150) biblici, e si approda così ai salmi. Questo rapidissimo e raffazzonato viaggio linguistico ci dice per lo meno che i salmi si inverano soprattutto nel canto, come da tradizione storica della Chiesa, ma ancora prima di lei, della liturgia che in epoca anticotestamentaria era celebrata nel tempio di Gerusalemme. Insomma le parole dei salmi sono troppo divine per essere solo recitate e, se si vuole celebrarle al massimo, non si può fare a meno del canto e del bel canto.

Il canto, rimanendo nell’ambito chiesastico, è debordato anche dai salmi. E così la storia della musica documenta ad esempio varie messe da requiem, di intramontabile celebrità e bellezza, che offrono forse maggiore fruizione estetica che spessore orante. Penso al Requiem di Mozart, di Cherubini, di Verdi, di Perosi e altri. Quello di Verdi fu eseguito per Alessandro Manzoni († 1873), tanto che il musicista Arrigo Boito († 1918) avrebbe commentato “la Messa di un grande per un grande” (2). Queste messe sono espressione della così detta polifonia, imperante in epoca barocca: musicalmente splendida, ma troppo obesa per cogliervi l’essenzialità della preghiera.

Ognuno canta con la propria voce. La voce umana è classificata sotto vari registri: femminili (soprano, mezzosoprano, contralto); e maschili (tenore, baritono, basso). Straordinari sono i bassi slavi, di una profondità impressionante. Li sento in internet, senza capire la lingua, ma mi diletta la tenebrosa cavernosità di quelle emissioni vocali. Nelle nostre liturgie occidentali i solisti sono solitamente dei tenorelli come quelli che si sentono alle messe pontificie che, per insufficiente potenza vocale, non riescono a dare al canto, e di conseguenza alla preghiera, quella gravità che la rende imponente, per non dire persino sovrumana. Nella musica lirica – l’opera, per intenderci – solitamente il sacerdote è un basso. Penso a Ramfis nell’Aida, è un sacerdote pagano ma basso anche lui. Penso, nell’opera buffa, a don Basilio del Barbiere di Siviglia: il famoso/famigerato cantore della Calunnia che è un venticello. E penso al Grande Inquisitore, addirittura in ruolo vocale di basso-profondo, nel Don Carlos di Verdi (3). Siccome la retorica musicale attribuiva al sacerdote gravità e imponenza, la sua voce non poteva che essere quella del basso tragico.

Lasciamo ora perdere la musica operistica torniamo alla liturgia. Quasi ogni parrocchia, o plesso di parrocchie, ha una cantoria di benemeriti volontari che si impegnano nel canto, facendo anche diligenti prove a frequenza cadenzata, alle dipendenze di un capo-coro e di un organista. A seconda del loro valore e capacità, danno un tocco di bellezza alla preghiera. I canti che si eseguono oggi hanno un sottofondo concettuale di natura salmodica che li legittima e le parole non sono (quasi) mai “tapin-banali”, meritevoli dunque di essere nobilitate col canto. Queste cantorie in genere non hanno pretese artistiche, perché sono espressione di un lodevole volontariato, e proprio per questo meritano considerazione. Ma non sono esenti da rischi che dipendono dalla loro intenzione di fondo. Mi spiego: intervengono nella liturgia intendendo il loro canto come forma qualificata di preghiera – dunque alla sant’Agostino onde siamo partiti – oppure solo come spettacolo? Se l’intenzione dominante è quest’ultima, una volta accertata, sono da licenziare immediatamente. La chiesa non è un palcoscenico e non la si frequenta se non per la gloria di Dio, celebrabile anche nel canto.

Quest’intenzione protagonistica si coglie se i cantori vanno a Messa solo quando è richiesta la loro prestazione. Salvo che l’inserimento in cantoria non sia da intendersi come un riavvicinamento alla Chiesa dopo tempi più o meno prolungati di latitanza. (4)

Negli anni ruggenti della riforma liturgica (70-80 del secolo scorso) promossa dal Concilio Vaticano II, le cantorie erano viste un po’ con diffidenza, perché si voleva promuovere il canto di assemblea. L’intenzione era giusta, ma va detto che non c’è incompatibilità fra cantoria e assemblea, in quanto certi canti si devono fare “a furor di popolo”, altri invece devono/possono essere affidati alla cantoria. La quale a sua volta non è fatta di marziani ma di cristiani, quindi, come specie biologica, non diversi dall’assemblea. E poi esiste anche la preghiera di ascolto: non devo credere di pregare meno ascoltando, invece di associarmi vocalmente a un canto che non conosco, con il rischio di scalcagnarlo. La Chiesa latina (la nostra) ha una splendida tradizione canora: quella del canto gregoriano, tanto specialistico quanto bello; diverso dalla musica corrente anche nelle modalità di sua scrittura. Leggendariamente lo si vuol far risalire a papa san Gregorio Magno (590-604). In realtà è più recente, si registrano infatti le prime avvisaglie attendibili nei secoli successivi. Questo canto era tutto in latino e, con l’adozione della lingua italiana, in buona parte è passato di moda. Del resto non c’è innovazione, per quanto opportuna e plausibile, che non faccia rimpiangere qualcosa. Questo capita anche nella nostra vicenda biografica: paradossalmente invecchiando ci rinnoviamo perché acquistiamo accessori che prima non si aveva (ad esempio rughe, occhiali, Amplifon, bastone, girello), ma resta il rimpianto della perduta giovinezza (che personalmente fatico a rimpiangere perché ripartire daccapo vuol dire semplicemente cambiare errori!).

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1. Chi si sarebbe sognato che il profeta Giona finito nell’addome di imprecisato mostro marito, per nulla intaccato dai succhi gastrici, da quella posizione avesse elevato un canto a Dio (cfr Gn 2,2-10)?
2. La vendo come l’ho comperata: l’ho sentita solo dalla buon anima di mia madre. Sarà stato qualche anniversario perché il Requiem di Verdi nasce nel 1874.
3. Don Basilio e il Grande Inquisitore (era un cacciatore di eresie) non so se sono classificati sacerdoti nel libretto d’opera ma abitualmente mi pare che vadano in scena in abito ecclesiastico. L’inquisizione è stata esercitata soprattutto dai domenicani.
4. Queste cose mi sembra di averle già scritte, ma ripeterle non fa male.