15ª domenica tempo ordinario Lc 10,25-37
Seguiamo l’esempio del samaritano –
a cura di Don Luciano Condina –
La parabola del buon samaritano è introdotta da un dialogo fra Gesù e un dottore della legge, che gli chiede cosa debba fare per ereditare la vita eterna. In risposta l’invito ad attuare la legge: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente (Dt 6,5); e il prossimo tuo come te stesso. Fa’ questo e vivrai» (Lc 10,28). Come se fosse facile! Ereditare la vita eterna, possedere una vita nuova non è concretizzare un’indicazione; non funziona così. Qualunque animo onesto, di fronte a questo comando, preciserebbe: questo non sono mai riuscito a farlo.
Per attuare questo comando Gesù è dovuto salire in croce. Ecco allora, puntuale, la velenosa domanda rabbinica su chi sia il “mio” prossi mo. Esisteva, infatti, una distinzione: di fatto, il prossimo era solamente l’israelita osservante, perché i peccatori non si potevano amare. Abbiamo tutti miliardi di scuse per non compiere la volontà di Dio: sappiamo tutti esprimere delle riserve, al pari di quel dottore.
Gesù entra nella povertà tipica del cuore umano illuminandola con la splendida parabola del samaritano. Un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico: due città simboliche perché la prima è benedetta; la seconda, nell’Antico Testamento, era maledetta, perché fu la prima città conquistata da Giosuè, destinata a non dover essere mai più ricostruita. L’uomo della parabola evangelica scende dalle altezze della città santa alle bassezze di Gerico, vicino al Mar Morto; quando si passa dalla santità al peccato è inevitabile incappare nei briganti: le incertezze della vita, le trappole, dall’amore al denaro, a tutto ciò che rovina l’uomo; il male, l’aspetto più deleterio di questo mondo, lo lascia mezzo morto, lo condanna a una condizione tragica per la sua lontananza da Gerusalemme, per essere uscito dalla zona della vita ed essere entrato nella zona della morte.
Un sacerdote e un levita passano oltre. Uscendo un istante dalla classica lettura che vede i due come privi di compassione, è bene ricordare che le norme dell’Antico Testamento vietavano a sacerdoti e leviti di toccare i cadaveri per non contaminarsi: non è compito loro soccorrere l’uomo, devono passare oltre. Questa è la funzione della legge, delle regole: la legge impedisce di amare realmente; per amare è necessario superarla. A un marito o a una moglie per amarsi non basta osservare “il decalogo del buon consorte”, devono andare ben oltre. La legge stabilisce la tua condizione, può farti la diagnosi e dirti che forse stai morendo.
Per salvare un uomo ci vuole altro: è un samaritano – un eretico – ad aiutare il malcapitato. Il samaritano – che non ha la mentalità incastrata nelle regole – ha compassione e lo soccorre: «Gli fasciò le ferite versandogli olio e vino» (Lc 10,34). Due elementi simbolici: sono le opere che portano con sé tutta la ricchezza del vino dell’alleanza, dell’olio della consacrazione, diventando nella Chiesa segno dei sacramenti, di ciò che cura e trasforma l’uomo. La cura è rimettere in contatto il poveretto con le cose che nutrono, salvano e curano la persona. La locanda simboleggia la Chiesa, luogo in cui guarire dalle ferite. Possediamo vino e olio: possiamo usarli come nostro nutrimento oppure per lenire una ferita. I beni che abbiamo possiamo usarli per amare: questa è la sorpresa; ma dobbiamo uscire da uno schema perché spesso pensiamo che servano ad altro. Lasciamoci portare a una novità, a un nuovo uso delle cose come fa il samaritano; le cose che noi crediamo di saper fare, invece dobbiamo imparare da principio.