Alla casa del Signore

 
 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi

alberipazzi@gmail.com

Fermamente convinto della sapiente bellezza dei salmi, ci rimango sopra ancora, cavalcandone uno che forse ho già sfiorato in precedenza; ma non ne sono sicuro e non ho voglia di controllare.

Quale gioia quando mi dissero:
“Andremo alla casa del Signore”

Con questo invitante programma inizia il salmo 121, di cui apprezzai la bellezza appena entrato in seminario: ottobre 1962. Era, ed è, usanza di fare un’immaginetta-ricordo nella circostanza dell’ordinazione sacerdotale, scrivendo sul retro una frase programmatica e magari pure augurale. Io vi scrissi le riportate parole del salmo 121, che adesso dobbiamo contestualizzare, come oggi si dice, con successiva spinta allegorica.

Si tratta di un salmo delle “ascensioni”, che veniva cantato insieme con altri (119-130) quando gli ebrei salivano per l’appunto verso Gerusalemme (m 760 slm) nelle feste di pellegrinaggio: pasqua, pentecoste, festa della capanne (in settembre). Soprattutto quelli che salivano dai dintorni del Mar Morto (m -390) dovevano fare una bella scarpinata in salita, sotto un sole insolente! E a Gerusalemme potevano visitare il tempio, casa del Signore in muratura. Per loro era un’intramontabile emozione, come per un alpinista che, essendo già stato magari una quarantina di volte alla capanna Margherita (m. 4559) sul nostrano Monte Rosa, ci torna ancora una volta! Questa è la contestualizzazione.

E ora l’allegoria, così definita dal Dizionario Treccani della lingua italiana: “Figura retorica, per la quale si esprime un senso riposto e allusivo, diverso dal contenuto logico delle parole”. Per farla breve, nella casa del Signore, che è il motivo storico di gioia dell’ignoto salmista, ci vedo la fase definitiva ed eterna del Regno di Dio o del Regno dei cieli o della Vita eterna o del Paradiso, che dir si voglia, mettendo così in allegoria il versetto iniziale del salmo 121. La Chiesa, e in essa i cristiani di ogni condizione e livello, non possono farne altra lettura, perché Gesù non ha parlato d’altro.

Il guaio è che la Chiesa di oggi mi sembra assai distratta da questa prospettiva, così come Gesù sembrava distratto dalle faccende di questo mondo, riconoscendo la priorità dell’eterno sul tempo. Gesù sembra quasi avere sopportato con fastidio interpellanze su questioni politico-fiscal-amministrative (cfr Mt 17,24-27; 22,15-22).

Anche il suo modo di pensare e gestire quello che egli stesso definisce secondo comandamento (“ama il prossimo tuo come te stesso” Mc 12,31) necessita di limature concettuali. Esiste infatti una differenza enorme, ma oggi per nulla tenuta presente, fra carità cristiana e assistenza sociale.

Quest’ultima, certamente benemerita, bada esclusivamente all’effetto dell’intervento di soccorso. La carità cristiana invece bada prioritariamente al merito che acquisisce dinanzi a Dio chi compie l’intervento.

Diversamente non avremmo quella grandiosa e terribile scenografia del giudizio universale che ci fornisce l’evangelista Matteo (25,31-46), nella quale il soccorso caritativo prestato è la chiave d’accesso al Regno dei cieli; e nulla si dice del benessere acquisito dal destinatario del soccorso.

Sentiamo:

Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla
creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare …

Inversamente e spaventosamente:

Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare …

Va aggiunto che il Vangelo, più che a una carità organizzata con tanto di uffici e almeno un pizzico di burocrazia, sembra suggerire la carità delle occasioni: vedi buon Samaritano (Lc 10,30-37). E se ciò è esatto, altra acqua per il mulino che privilegia il soggetto che compie l’intervento rispetto a chi ne è destinatario.

Il filtro attraverso il quale passa l’intervento caritativo è sempre l’eternità, quindi la gioia di giungere alla “casa del Signore” da intendersi nel senso allegorico sopra precisato. E’ giusto che i poveri siano aiutati, che i migranti siano accolti nei limiti di ragionevoli possibilità, ma non si deve dimenticare che hanno già la loro remunerazione garantita, per il solo fatto di essere poveri. Diversamente non leggeremmo il Luca 6,20:

Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio1.

La logica e la sapienza del Vangelo è quella di considerare storia e vicende di questo mondo attraverso il filtro dell’eternità. Ma chi si ricorda dell’eternità, chi ne parla? Vale a questo proposito, per la Chiesa, un rimprovero dantesco al papa di allora, Bonifacio VIII (1294-1303): talmente preso da questioni di politica italiana, trascurava
l’occupazione islamica della Terrasanta, “che poco tocca al papa la memoria” 2. L’eternità pare che vada a finire nel dimenticatoio ecclesiastico!

Oso dire che oggi la Chiesa dà, almeno a me, la sensazione di essere distratta dall’eternità, puntando maggiormente su altre preoccupazioni, peraltro meritevoli di attenzione. Se ciò è esatto, non esito a definire spaventosa l’attuale situazione ecclesiale; ben più che per il fenomeno pedofilia e affini, che sono vicende da “pecora nera”, ma non comportano inquietanti silenzi dottrinali, su temi che sono in definitiva l’essenza del cristianesimo.

Mi rendo ben conto che dell’eternità in pratica possiamo dire solo la parola, perché il suo contenuto effettivo sfugge al nostro debole comprendonio. Ma se almeno si ricuperassero le formule del catechismo tradizionale che prospetta il Paradiso come godimento interminabile di ogni bene senza alcun male; e l’Inferno come sopportazione
interminabile di ogni male senza alcun bene, si metterebbe in circolazione una ricetta più che benefica, forse anche agli effetti di un miglioramento delle nostra poco esaltante società attuale, che ci prospetta per giunta un terrificante abbassamento biografico della soglia della malizia. Mi riferisco al bullismo, le cui manifestazioni sono in crescendo verso il sadismo ossia il godimento delle sofferenze altrui, che arriva fino a sghignazzare su chi è torturato e perché è torturato.

Quanto ci ha incupito questo salmo dall’inizio così luminoso. Dopo questa passeggiata fra eternità e degrado attuale, quella gioia si mescola a malinconia. E del resto il salmo, dopo essersi allietato per il progressivo avvicinarsi a Gerusalemme, addirittura varcandone le porte, introduce una nota austera che ci fa bene tener presente:

Là [a Gerusalemme] sono posti i troni
del giudizio, / i troni della casa di Davide.

I troni della casa di Davide erano la sede della magistratura umana di allora e di quelle parti, e a noi non fanno né caldo né freddo. Ma se li trattiamo in senso allegorico ravvisandovi il giudizio di Dio, davanti a quei troni dovremo presentarci anche noi.

 

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1 In Mt 5,2 non si parla di poveri a 360 gradi, ma di una
povertà specificata come “in spirito”. Probabilmente la
dizione originaria è quella di luca. Si ritiene che Mt
abbia coniato la formula “poveri in spirito”, per non tagliare fuori la comunità destinataria del suo Vangelo,
probabilmente benestante.

2 DANTE Paradiso IX 126.