“ANDRÁ TUTTO BENE !”

 
 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi

alberipazzi@gmail.com

Mi chiedo come si possa essere così vittoriosamente ottimisti, quando fino adesso non è andato niente bene! In Italia si contano ormai migliaia di morti in crescita per coronavirus. E’ pur vero che in larga prevalenza i decessi girano attorno agli ottant’anni, e sappiamo bene che, secondo l’anagrafe classica, molto più di tanto non si campa (1), ma le odierne aspettative di vita ci induco a sperare qualcosa in più. La scienza ci “condanna” all’esistenza: basta andare in una struttura per vecchi (2), per renderci conto di come si è conciati negli anni terminali della vita.

Il costo del coronavirus ha un peso enorme, in termini di vite umane e in termini economici. Lo dicono in molti, che hanno lo sguardo più attento e competente del mio. Altro che “andrà tutto bene”! Ho apprezzato l’eleganza con cui il sindaco di Bergamo – città più di ogni altra tartassata dal coronavirus – in un’intervista prende mestamente le distanze dal ridarello ottimismo da balcone.

Prendiamo la lezione. Se Attila, condottiero degli Unni, sceso in Italia nel 452 con mano non particolarmente carezzevole, si è beccato il titolo di “flagello di Dio”, perché non lo possiamo ripristinare per gli effetti-coronavirus sull’Occidente, seppure partito dall’estremo Oriente? Ma adesso imperversa in casa nostra.

Questa mattina, rileggendo il profeta Geremia, sono incappato nel seguente passo (14,19a):

Perché ci hai colpiti, senza più rimedio per noi?

La domanda è rivolta a Dio, in riferimento ad altre iatture. Mi è venuto spontaneo applicarlo al coronavirus, seppure con le seguenti precisazioni: 1. Non abbiamo la certezza che il coronavirus sia un castigo di Dio, ma non abbiamo neppure la certezza che non lo sia; e tanto meno di non meritarcelo; 2. Avremo dei rimedi, ma non tali da poter dire “andrà tutto bene”, perché i morti da coronavirus non risorgeranno se non all’ultimo giorno (cfr Vangelo di Giovanni 6,39; 11,24).

Adesso ho imboccato un itinerario mentale a me caro fin da bambino: la morte! Sua maestà il Coronavirus (3) concede, bontà sua, delle guarigioni. Ma cos’è la guarigione, se non un rinvio dell’ineluttabile, la morte? Non posso non citare dei maestri di questo lugubre pensiero. In prima linea metto quell’autunnale esploratore del senso della vita, che è il biblico Qoelet, il quale così mugola nel suo disilluso sermocinare:

Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul giorno della morte (Qo 8,8).

E Dante si permette l’audacia poetica di definire la vita attuale un “viver che un correre alla morte” (4). Ove il verbo correre dà l’idea di una staffetta incalzante e travolgente nella quale gli anni si passano il testimone.

Se vogliano fiutare nel coronavirus un castigo di Dio, magari un po’ irritato per il menefreghismo che l’Occidente ostenta nei suoi confronti, va detto che il primo requisito di un castigo è che sia equo. Siamo sicuri che la morte da coronavirus stia agendo con equità, facendo fuori soltanto chi se lo merita? Se affermassi una roba del genere in un’omelia, meriterei di essere fucilato all’ambone!

Per uscire da questo vicolo cieco bisogna rimettere in auge un dato di fede, ma anche di ragione (5), sul quale si è lasciata cadere una perversa e ostinata censura: la vita eterna. Anche la Chiesa l’ha un po’ persa di vista, tanto ha appiattito la sua attenzione sulla crosta terrestre; e ciò è spiacevole. Per noi la vita attuale è tutto, ma con un limite enorme: è limitata nel tempo. Il nostro pensare, il nostro progettare e via dicendo, è inevitabilmente cronologico: ritmato dalle lancette dell’orologio che girano e dai fogli del calendario che si staccano a mese terminato. Ma Dio è eterno e il suo pensiero si espande nell’eternità. Tra noi e Dio c’è dunque un ribaltamento di prospettive: tanto noi siamo immersi nella cronologia, tanto Dio ne è fuori; tanto noi snobbiamo l’eternità, tanto Dio la considera e valorizza; tanto la morte è per noi la massima iattura, tanto per Dio la nostra vita presente è una gestazione esistenziale verso la “vera vita” (cfr 1 Lettera a Timoteo 6,19). Sant’Agostino distingue argutamente fra “vita mortale e vita vitale” (6): sapiente espressione per connotare la ben diversa consistenza delle nostre due stagioni esistenziali.

Ecco allora che non ha senso chiedersi perché il coronavirus assesti sciabolate alla cieca, senza distinguere tra meritevoli e immeritevoli. Se Dio accoglie in paradiso uno strangolato da coronavirus, dobbiamo dire che sia stato ingiusto con lui? Ne ha autorizzato il transito da una vita in ogni caso tapina a una vita sfolgorante di luce, felicità, bellezza. E se invece la vittima va all’inferno, l’unica cosa che si può dire è che se l’è andato a cercare.

Quell’ “andrà tutto bene”, che ho messo in testa a questa chiacchierata, è intempestivo e miope, perché non vede oltre il naso dell’uomo, con poca soddisfazione anche se lungo come quello di Pinocchio! Ha senso soltanto se lo si riferisce agli esiti eterni della vita di ciascuno di noi: allora vi riconosco un proclama di autentica speranza, seppure strombazzato almeno con un eccesso di sicumera, perché l’eternità prospetta a noi alternative e irreversibili condizioni di vita.

Termino tirando in ballo l’autorevolezza di san Paolo, più che mai titolato a parlarci di eternità: “Ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla futura gloria che sarà rivelata in noi” (Lettera ai Romani 8,18).

1 Salmo 89,10: “Gli anni della nostra vita sono settanta [lo scrivente dovrebbe essere morto da un pezzo], / ottanta per i più robusti”.
2 Ricuperiamo queste termine senza prenderci in giro. Personalmente non esito a ritenermi tale.
3 Lo gratifico del titolo maiestatico perché è un virus onomasticamente incoronato.
4 DANTE Purgatorio XXXIII 54.
5 Il primo che ha cominciato a parlarne seriamente è stato il filosofo greco Platone (†347 aC).
6 AGOSTINO, Commento al salmo 89.