Battesimo del Signore (Anno A)

 
 

la Comunità della Trasfigurazione commenta il Vangelo di Mt 3,13-17

Il battesimo, primo atto pubblico di Gesù, appare come un’ulteriore

incarnazione del Dio fatto uomo che si assume le nostre fragilità

Negli ultimi giorni di Avvento e nelle diverse festività che abbiamo celebrato in questo tempo di Natale la Chiesa ci ha invitati a meditare e contemplare i brani relativi al mistero dell’incarnazione nelle sue diverse sfaccettature. Poi il Vangelo tace – a parte l’episodio della presentazione al tempio e del ritrovamento di Gesù fra i dottori – e prevale il silenzio in merito ai lunghi anni in cui Gesù «cresceva in sapienza, età e grazia» (Lc 2,52), sottomesso ai suoi genitori.

Ci troviamo così improvvisamente di fronte al primo atto pubblico di Gesù, che conclude il tempo del Natale; un atto denso di significato, che possiamo osservare da due prospettive diverse: quella del battezzatore e l’altra di colui che si fa battezzare.

Che cosa avrà provato Giovanni, che era sobbalzato nel grembo di sua madre nel momento in cui riconobbe la presenza del Signore nel seno della Vergine, quando lo vide chinarsi davanti a lui per farsi battezzare? Il Battista ha una percezione molto lucida della propria identità e della superiorità di colui che aveva definito come «più forte», uno verso il quale non era degno di compiere il gesto del più umile servo.

Gesù, però, sembra valutare la situazione con un criterio diverso, in base a una giustizia che non appartiene al mondo degli uomini, ma a quello di Dio. È la stessa giustizia che spinse Giuseppe a prendere con sé la sua sposa e che ora muove Gesù verso qualcosa di ancora più ardito: entrare nel pensiero di Dio e realizzarlo, facendosi in tutto simile a noi, compiendo quel gesto di purificazione di cui noi esseri umani, e non lui, abbiamo bisogno.

Il battesimo ci appare così come un’ulteriore “incarnazione” del mistero dell’incarnazione, poiché qui Gesù assume su di sé un’altra dimensione del nostro essere carne: la fragilità, la debolezza della natura umana, non il peccato, ma tutta la nostra vulnerabilità. «Ciò che non è assunto, non è salvato», affermavano i Padri della Chiesa, ed è proprio perché la nostra umanità è stata da Gesù completamente presa su di sé, che i cieli si aprono, lo Spirito scende su di Lui ed Egli sente la voce del Padre che lo proclama «figlio amato», oggetto del suo compiacimento.

Di che cosa si compiace un padre?

Dell’esistenza del figlio, indubbiamente, del rispecchiarsi nel frutto delle sue viscere e, di conseguenza, anche del suo agire. Qui Matteo presenta questo avvenimento non come un evento pubblico, ma come un’esperienza personale, intima, tra Gesù e il Padre. Si tratta di una conferma e di una rivelazione dei gusti e dei desideri di Dio. Nella scena del battesimo Gesù rivela chi è e come vuole vivere: è l’obbediente in cui si adempie ogni giustizia, è il servo umile il quale, benché senza peccato, accetta di mettersi in fila per ricevere il battesimo, è colui che, come scrive san Paolo, «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso… divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7).

Con tale gesto egli imbocca seriamente quella strada che lo porterà a donare se stesso per amore sulla croce. Ed è proprio di questo amore senza riserve e senza limiti che il Padre si compiace e in cui si rispecchia, poiché al dono che Gesù fa di sé a tutti noi corrisponde quello del Padre che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui… abbia la vita» (Gv 3,16).