Celebrata la fraternità sacerdotale con il neo vescovo Mons. Arnolfo
di Guido Galfione
«Scrivi. Butta giù qualcosa. Ogni cinquant’anni è lecito un giro sull’autoscontro dei ricordi».
Va bene, se lo dici tu, ecco qua.
Duomo di Vercelli, alba del 28 giugno 1964. L’Arcivescovo Imberti ti unge le mani con sacro crisma. Poi è usanza che il padre del nuovo presbitero le leghi con un candido lino. Ma mio padre non c’è. Il forno crematorio di Mathausen ha bruciato i suoi trentadue anni nel 1945. Si avvicina il mio padrino di Cresima. E’ stato, fino al suo ultimo respiro, un punto di riferimento della mia fede. Incertezze e zoppichii arriveranno ancora, ma le parole e l’esempio suo daranno coraggio.
A ritroso nel tempo ritroviamo alcune di tali incertezze. Quel giorno a Orta, il frate che, davanti al piatto di spaghetti, dice a me, quindicenne che sta per entrare in seminario: «Questa è una delle poche gioie concesse a noi preti!». Ma allora, vale la pena di incamminarsi? Incertezza davanti alla statistica. «Crisi nei preti. Maggiore attorno ai trentacinque anni, per mancanza di paternità».«Monsignore io oggi ho vent’anni. Sto assumendo impegni che a trentacinque rinnegherò?». E mons. Varese, serafico: «Allora avrai il breviario». Incertezza quando, il primo giorno dell’anno scolastico, ascolti la lettura del egolamento che afferma: «Il seminario è il giardino della diocesi». Ma io , che sono un’ortica, che ci faccio qui? Incertezze di una domenica al mese, nel seminario di Moncrivello, quando arriva mia madre con mia nonna. Si sono alzate all’alba, cambiando quattro corriere per giungere al casello autostradale di Cigliano.
Da lì, per vari chilometri, a piedi, con sacche di biancheria pulita (e sporca al ritorno), arrivano al seminario minore per un incontro che non si può realizzare subito, perché la fila non è… perfetta. Non dubito delle buone intenzioni dei superiori, ma neppure che non siano condite di certe ottusità. La tentazione è di mollarli lì con le loro balorde santità. Poi però ci sono gli angeli custodi. Il mio si sgola parecchio, ma io sono distratto. Invece il miei compagni di classe sono più attenti e mi passano preziose informazioni. Incertezze, fermate da Luigi Longhi sulla porta del rettore. Io e altri eravamo in delegazione per annunciare che non ci saremmo presentati alla riapertura del nuovo anno, visto che Luigi era stato giudicato «non idoneo» (non conosceva il greco!). Pacato lui ci rassicurò: «Me ne vado, ma tornerò tra un paio d’anni. Vorrei ritrovarvi tutti qui».
Cinquant’anni di passi in una «valle oscura», ove Umberto C. ha lasciato sul monte l’ultima preghiera per iniziare il canto dell’Alleluia eterno. Ove hai raccolto tra i rovi del burrone l’ultimo respiro di Giovanni R., avendo visto garrire nel vuoto la sua tonaca di suddiacono. Ove il brillante neo laureato N. ha perso la sua sfida con la roccia e il fratello, sei mesi dopo, è stato sepolto da duplice valanga. Ove B., il tuo sacrestano, sta fuggendo in bicicletta dopo aver ammazzato sua sorella. Ove Doretta G., dopo aver concordato il giorno delle nozze, sparerà a padre, madre, fratello nonno e nonna.
Ove pendono corde di suicidi. Ove… Come si può camminare nella valle ove non esistono parole? Eppure lì è deposto un vigoroso tuo «vincastro», Signore. Su quel bastone, sono incisi tanti nomi di fratelli che han portato un lume, una silenziosa preghiera, un dono inatteso, aprendo un passaggio nel buio. Incertezze tante e altrettanti angeli lungo dieci lustri. Presenze coordinate dal mio viceparroco. Lui ha l’incarico di fare tutto ciò che non mi riesce. Praticamente deve fare tutto lui. Ma è un fenomeno : assolve sempre il suo compito.
Come si chiama? Paraclito.