Dialogo sulla fede con il proto-vescovo Eusebio
Cattedrale, 1 agosto 2013
Anch’io, oggi, 1 agosto, rileggo volentieri la lettera scritta da Eusebio dall’esilio di Scitopoli essa nella sua parte conclusiva, va ad incrociare il titolo della lettera enciclica di papa Francesco: “Custodiatis fidem”, custodite lumen fidei.
Per questo non intendo proporre una riflessione secondo lo stile omiletico; vorrei, invece entrare in dialogo con Eusebio, nel tono di un’intervista, per conoscere il suo pensiero, attuale anche per noi sul grande tema della fede, nell’anno ad esso dedicato. Fu papa Benedetto a indire questo tempo di grazia per tutti credenti in Cristo
In particolare vorrei rivolgere ad Eusebio alcune domande.
- La prima: Che cosa hai trovato quando, nel dicembre del 345,hai lasciato la via Aurelia e sei approdato, sulla diligenza imperiale, nella verde pianura padana ?
Nel nord Italia, tra i primi secoli delle persecuzioni e la nuova stagione delle libertà costantiniane, la presenza cristiana era minoritaria; si aggirava attorno al 10%. Il contesto storico era attraversato da venti diversi: nei centri urbani erano vigorosi i culti pagani di Roma; pare che la stessa città di Vercelli fosse dedicata alle divinità pagane. La capitale dell’impero aveva portato nel mondo il suo complesso di superiorità: “Roma nihil in orbe maius”.
Ma la condizione sociale e culturale smentiva quell’immagine di grandezza. Da una parte era forte il mito della potenza latina; dall’altra la società romana mostrava il suo volto feroce e violento che schiavizzava i deboli: sopratutto la donna, i bambini orfani, gli anziani, i malati. I due mali più gravi erano l’esposizione delle bambine e il ripudio per qualsiasi motivo. Solo nel 374, tre anni dopo la morte di Eusebio, sotto l’imperatore Valentiniano, i Cristiani ottennero per legge il divieto di eliminare i bambini.
La presenza cristiana, lievito di nuova storia, come sovente accade, era animata da grande impegno; i martiri dei primi secoli erano testimoni coraggiosi. Eusebio e altri Padri chiamavano i Cristiani che si radunavano attorno ai loro martiri “comunità dei santi”.
Ma pure tali comunità erano aggredite dal vento dell’eresia ariana. Anche Eusebio ne sentì parlare quando era ancora lettore a Roma. Il grande storico dell’antichità, il gesuita Jean Daniélou, scrive che Ario, “il prete di Alessandria d’Egitto, dai costumi austeri, raffinato e orgoglioso, era dominato da un’ossessione: salvaguardare, in seno alla Trinità, l’originalità assoluta e i privilegi del Padre…il solo vero Dio”.
Ario affermò che il Figlio di Dio, nato da Maria era solo una creatura, un uomo, adottato da Dio come figlio. Il Vescovo di Alessandria intuì che Ario distruggeva il cristianesimo, lo minava alla radice: se Gesù Cristo non è Dio, il cristianesimo perde il suo centro. E così l’eresia del prete di Alessandria si diffuse rapidamente, portato tra il popolo con il vento favorevole di un’operetta, Thalia (banchetto), canticchiata per le vie della città.
La comunità cristiana, però, non era solo insidiata dall’eresia; essa veniva compromessa nella vita pratica di molti cristiani. Accanto a credenti autentici e fervorosi c’erano dei cristiani inquinati da una mentalità pagana: come oggi, cristiani di nome, atei di fatto. La ricerca del piacere, una sorta di edonismo, vinceva su una vita cristiana modellata sulla drammatica immagine di un Dio crocifisso. Era insomma difficile la fede in un Dio sconfitto sulla croce. Grandi padri, di poco posteriori ad Eusebio, come Agostino e Giovanni Crisostomo non mancavano di richiamare con severità i cristiani di nome e pagani di fatto.
- Una seconda domanda vorrei rivolgere ad Eusebio: Quali sono i tratti salienti della tua esperienza di fede?
C’è un punto luce nell’esperienza di fede di Eusebio, storicamente importante: il concilio di Nicea. Iniziato il 30 maggio del 325 con un intervento di Costantino, invitava i trecento vescovi convenuti, a ricomporre i dissensi nella pace. La preoccupazione di Costantino era una fede strumento di unità. Il concilio affermò la centralità di Cristo, vero Dio e vero uomo. Pertanto la fede di Eusebio è chiaramente cristocentrica, in sintonia con la parola di Dio.
Anche Eusebio sembra fare eco a Paolo apostolo nella 2a lettera a Timoteo: “Carissimo, ricordati che Gesù della stirpe di Davide è risuscitato dai morti secondo il mio vangelo” (2Tim 2–8). Il cuore della fede cristiana è la risurrezione di Gesù. Per questo, Paolo ha ragione di trasmettere la grande speranza: “Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo” (2Tim 2,12). La vittoria di Gesù sulla morte, la risurrezione, è il natale della nuova umanità.
Ma il potere politico, al tempo dei primi cristiani contemporanei di Pietro, e come nel tempo di Eusebio, ricorre alla stessa arma per demolire la luminosa verità della fede: l’imposizione dell’eresia con le armi della violenza e la condanna all’emarginazione dell’esilio. Il Vangelo entra sempre in conflitto con la prepotenza dell’errore.
Anche Paolo è di una chiarezza solare: “Io soffro fino a portare le catene, come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata” (2Tim 2,9).
Secondo gli Atti, il potere vorrebbe imporre il silenzio al Vangelo: “Vi avevamo espressamente ordinato di non insegnare più nel nome di costui” (Atti 5,27), dice Pietro. Ma la fedeltà a Dio ha un prezzo: per gli apostoli, la condanna a morte; per Eusebio, la condanna all’esilio. La fede annunciata, vissuta e testimoniata, non è mai a basso prezzo. E’ sovente insanguinata.
Non ci sono stagioni che registrano applausi per i discepoli del Risorto. La testimonianza di Eusebio non incontra la violenza del martirio come nei tempi di persecuzione; il potere è violento anche nel secolo delle libertà costantiniane. Sotto il decreto di condanna di Eusebio, al concilio di Milano, c’è la firma di un imperatore, schiavo della dottrina di Ario. Ma il vescovo di Vercelli aveva capito la grande lezione di Pietro: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”(Atti 5,29),anche a costo della vita. La fede è sempre un’obbedienza.
La fedeltà a Cristo di Eusebio diventa pure testimonianza di un pastore modellato sul “bel pastore”, Gesù, che s’ incontra al c. 10 di Giovanni.
Nel IV secolo, Eusebio non spicca come un brillante teologo alla pari di altri padri di poco posteriori; egli primeggia come pastore buono, preoccupato di spezzare il pane della Parola, con la cura di formare i presbiteri del cenobio per portare il Vangelo nei centri urbani e nelle campagne. La fede di Eusebio si esprime pertanto attraverso una presenza assidua e mite, capace di comunicazione efficace della parola di Dio.
Lo stile non è quello del vescovo Massimo di Torino, che non mancava di trasmettere il Vangelo con sferzante ironia. Non è la violenza aggressiva di altri vescovi contro i culti pagani, bensì lo stile modellato su Gesù, il pastore buono, con l’arte di persuadere, con una parola convincente e paziente.
Questo tratto del pastore appare anche durante il rude esilio di Scitopoli e diventa parola persuasiva durante i lunghi viaggi di andata e ritorno dall’esilio. Risalendo l’Italia, verso le comunità pedemontane, Eusebio veniva salutato con gioia dalle comunità cristiane, che il vescovo incoraggiava amabilmente. Il ritorno dei vescovi nelle loro città era di grande incoraggiamento per i cristiani. Ne è testimone san Girolamo:“Ad reditum Eusebii… al ritorno di Eusebio, l’Italia mutò le vesti del lutto”.
Eusebio non mancò di curare il suo gregge anche durante l’esilio: non senza l’apostolato della penna. Anche Eusebio poteva ben ripetere come Gesù: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me…e offro la vita per le pecore” (Gv 10). Pertanto, la rudezza dell’esilio e la testimonianza di una vita totalmente donata, fanno del proto-vescovo di Vercelli un testimone riconosciuto come martire.
- Una terza ed ultima domanda vorrei porre: Che cosa direbbe, oggi, Eusebio ai Vercellesi nell’anno della fede?
Nello scritto dall’esilio dice: “Vi scongiuro: custodite la fede con la massima vigilanza; conservate la pace tra voi, pregate e ricordateci sempre…Il Signore si degni di liberare la sua Chiesa che soffre su tutta la terra”.
La Chiesa, dunque, naviga a vista sul mare agitato di una persecuzione violenta. La sapienza del pastore mira a salvare la fede; questa è la questione fondamentale che decide la direzione dell’esistenza. L’imperativo è chiaro: custodite la fede.
E il custodire la fede significa non lasciarla inquinare dal “paganesimo sottile” di una diffusa visione mondana della vita.
Custodire la fede significa conservarne la buona salute con il vigore della concretezza. La schizofrenia tra fede e vita indebolisce la fede e falsifica la vita. C’è una sintonia sorprendente tra la lettera scritta da papa Francesco e quella di Eusebio. Due lettere encicliche: per la Chiesa universale la lettera del successore di Pietro; per la Chiesa di Vercelli, quella scritta da Scitopoli; ambedue scritte in tempo di crisi, “nel tempo della prova” fa sapere Eusebio.
Anche il nostro, è un grave tempo di crisi: economica ed etica. I nembi minacciano tempesta; ma coloro che sono provati “devono rialzare la testa” scrive Eusebio; la fede è luce per illuminare la vita e la storia, dice papa Francesco. La crisi del nostro tempo sta sotto gli occhi di tutti, anche se non tutti hanno una visione oggettiva dei primati in negativo che affliggono il nostro territorio. I segnali di fragilità sono tangibili su fronti diversi: quello dell’invecchiamento demografico, della propensione nostrana alla capitalizzazione che non reinveste a vantaggio della collettività; della disoccupazione, passata sul nostro territorio dal 6,3% nel 2011 all’11,1% nel 2013.
Forse qualcuno, di fronte a questo sguardo nel sociale, potrebbe chiedersi: che c’entra la fede con il disagio economico delle nostre famiglie e del nostro territorio?
Per la Lumen Fidei di papa Francesco, la fede è la luce per abitare la storia, senza pessimismo o fatalismo. La fede fa luce sopratutto sulla vocazione e missione dei laici cristiani, attribuendo a ciascuno una precisa responsabilità di cittadino e di politico, di fronte alle ingiustizie di chi ha troppo e di chi ha troppo poco.
La fede chiede, senza alibi, di essere coniugata con la giustizia. Attenzione alla scorciatoia tra fede e carità: la giustizia non può essere censurata. Tra la fede e la speranza c’è la giustizia, che non è una virtù quaresimale, come è sovente la carità vissuta come assistenza; è una virtù feriale, che sa affrontare le cause, le radici delle crisi che hanno costruito strutture ingiuste.
Mi ha colpito non poco l’ascoltare, in modo documentato, le ingiustizie che riguardano non la geografia del “paese Italia”, ma quella del nostro territorio: come i comportamenti impropri di cristiani sul lavoro e nella vita pubblica, come i favoritismi, i doppi impieghi, i guadagni non limpidi, le consulenze esterne che costano alla collettività. Questa diagnosi che ci affligge, chiede un serio esame di coscienza, personale e comunitario; impone soprattutto ai cristiani stili alternativi di vita, all’insegna della sobrietà e della solidarietà. L’urgenza di cambiamento di rotta della vita sociale non è richiesta dalla gravità della crisi, ma imposta dal precetto evangelico della giustizia.
La vocazione dei laici, pertanto, non si esaurisce in una ministerialità intra-ecclesiale; il Concilio ne specifica l’indole secolare, che è il portare lumen nella zone tenebrose del mondo.
“Conservate la fede” ci ripete con passione Eusebio: quella fede che dona luce, bellezza e speranza alla vita; quella fede che trova il suo centro nella domenica , la pasqua del Signore, non calpestata sulla soglia dei super-mercati aperti, quella fede che ritrova vigore nelle nostre famiglie riaggregate nel riposo, dall’Eucaristia e dalla preghiera.
Ce lo chiede Eusebio con parole precise: “Vos peto…vi chiedo di conservare la fede, la concordia, radicati nella preghiera”.