Domenica delle Palme
A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Quando nel “Cammino di perfezione” Teresa d’Avila insegna alle sue suore come pregare, scrive: «Non vi chiedo di concentrarvi tutte su di Lui, formare alti e magnifici concetti ed applicare la mente a profonde e sublimi considerazioni. Vi chiedo solo che lo guardiate!». Guardare Gesù è un invito che possiamo sentire rivolto anche a noi all’inizio di questa Santa Settimana. Davanti a un Vangelo così ricco posiamo lo sguardo silenziosamente su Gesù nella sua umiltà e mitezza, nell’obbedienza e nella regalità, nella fedeltà estrema e nel dono di sé. In particolare, fermiamo la nostra attenzione su due episodi centrali di questo Vangelo: la preghiera nell’orto e la crocifissione. Nella scena del Getsemani veniamo in contatto con quanto abita nel profondo del cuore di Gesù: il desiderio di prossimità, espresso nella richiesta ai tre discepoli di sedersi non troppo distanti da lui, e la “tristezza e angoscia” ci aiutano a sentirlo estremamente vicino, profondamente uomo. Che cos’è, però, questo calice che egli vorrebbe eliminare? Come ogni uomo Gesù recalcitra e si oppone alla morte, anzi, lui che aveva detto: «Io sono la vita», la aborre più di ognuno di noi. Il calice a cui si riferisce, però, non riguarda solo la fine della sua esistenza. Tanti martiri hanno affrontato la morte con estremo coraggio e Gesù stesso si è dichiarato angosciato finché non fosse compiuto quel battesimo – la sua morte – che doveva ricevere (cf. Lc 12,50). Il calice che angoscia Gesù è forse il pensiero del tragico e crudele affronto perpetrato nei confronti del Padre, già preannunciato nella parabola dei vignaioli omicidi, oppure è colmo della colpa di cui l’uomo si sta macchiando. Guardando a Lui in questo momento di angoscia non vediamo, però, unicamente la sua afflizione. Nello stesso modo in cui l’evangelista Giovanni nel prologo ci descrive il Verbo di Dio, Gesù rimane costantemente rivolto verso il Padre, un Padre la cui volontà di salvezza per l’uomo deve prevalere. Per ben tre volte Gesù ripete la stessa invocazione che si conclude con la sua assoluta determinazione. Tutto il restante racconto non sarà altro che una continua conferma della decisione assunta nell’orto degli Ulivi, il cui apice verrà raggiunto nella scena della crocifissione. Qui Gesù accoglie fino in fondo quel calice che aveva deciso di bere non solo rifiutando le bevande porte dai soldati, forse per pietà o soprattutto per schernirlo, ma soprattutto non lasciandosi tentare dalle voci circostanti che lo invitano a salvarsi da solo. Se vogliamo guardare a Gesù, come suggerisce Teresa d’Avila, possiamo allora contemplarlo così: deriso, nudo, schernito, indifeso, denigrato che tuttavia assume pienamente la sua «condizione di servo» (Fil 2,8) e si fa «obbediente fino alla morte» aspettando la sua salvezza da un Altro; un Altro a cui si rivolge chiamandolo «Dio mio», ma da cui tuttavia si sente abbandonato. Questa fedeltà estrema nel prendere su di sé la propria morte ci rivela la misura senza misura del suo amore per noi, quell’amore “sino alla fine” di cui parla l’evangelista Giovanni. Nel grido rivolto al Padre, dove l’appellativo Dio è seguito dall’aggettivo mio, rivelatore dell’intensità di un legame, scorgiamo l’abbandono totale di Colui che fino all’ultimo si rivela Figlio e, per tale motivo, a Pasqua riceverà in dono una nuova vita di cui anche tutti noi saremo resi partecipi.