Domenica delle Palme, Mt 26,14-27,66

 
 

– La passione redentrice di Cristo –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Il taglio del vangelo di questa domenica è talmente lungo che mi devo limitare solo a qualche sfioramento testuale. Nella storia della passione si direbbe che gli evangelisti abbiano stipulato un patto d’intesa: sono infatti sostanzialmente d’accordo tutti e quattro nel narrare la vicenda all’incirca con la stessa successione del fatti. Vi si allinea abbastanza anche il solitario Giovanni, che nella parte restante del suo scritto ama mettersi in proprio. Ciò non toglie che esistano differenze più o meno marcate fra l’uno e l’altro, tuttavia in questa parte terminale del vangelo meno che altrove. Con ogni probabilità i vangeli hanno cominciato a essere scritti proprio dalla fine, e dunque la storia della passione dovrebbe essere il nucleo primitivo del testo.

Ho accennato a differenze che potremmo anche definire marginali, e fra queste vi sono pure particolarità tipiche di ogni vangelo.  Ho intenzione di esaminarle in parte, rimanendo nella pista di Matteo. Solo lui, infatti, manda in scena la “signora Pilato” a raccomandare all’imbarazzato marito: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua». La signora è dunque consapevole che il marito sta maneggiando la classica patata bollente. I sogni che hanno guidato le mosse di Giuseppe ad accoglienza e protezione di Gesù bambino, in Matteo tornano a mandare messaggi, ma questa volta enigmaticamente inquietanti. Inoltre, solo in Matteo il mediocre Pilato, visto che non riesce a togliere Gesù dalla grinfie dei suoi arcigni accusatori, come gesto di incolpevolezza per la di lui condanna a morte, si fa uno scenografico “maniluvio”, a sottolineatura gestuale della propria innocenza. Ho aggettivato questo famigerato procuratore romano come mediocre. Eppure, proprio per la sua mediocrità, è divenuto il più famoso di tutti i procuratori, romani e non, tanto da installarsi irreversibilmente nel Credo, meritandosi menzione a ogni messa domenicale.

Portiamoci ora più avanti e mettiamoci ai piedi del Crocifisso, che in Matteo (e Marco) pronuncia parole terribili: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Come mai Gesù, che in agonia nel Getsemani aveva detto «Però non come voglio io, ma come vuoi tu!», ora ringhia a Dio questo feroce atto di accusa? Ben diverso dall’abbandono placido e sereno del salmo 30,6 che, in pari circostanza, gli mette in bocca Luca: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito». Come può un uomo nella medesima circostanza pronunciare parole così diametralmente opposte?

C’è dunque da chiedersi quale delle due sia da ritenersi autentica, e direi quella di Luca, molto più coerente con l’atteggiamento complessivo di Gesù verso il Padre.  Allora perché Matteo e Marco sono così dispettosi da prospettarlo ribaldo proprio nel momento terminale?

Si tratta di un montaggio teologico. Quelle parole tremende sono prese dal salmo 21, che offre il negativo anticotestamentario del messia sofferente. In tal modo i nostri due evangelisti significano che le profezie mirate sul messia malmenato (Is 50,4-7; 52,13-53,12 ecc.) si realizzano in quel momento, identificandolo con Gesù di Nazaret.  Nel contempo lasciano un arguto e sapiente messaggio al lettore: non ci si deve infatti stupire se, avendo passato tutta la vita nel timore di Dio, in punto di morte insorgano moti di ribellione. Ciò vale soprattutto per gli spacconi, non rari, che dicono: «Io non ho paura della morte, anche se arrivasse in questo momento». Risibile sparata! Sono fresconate che si dicono quando si è schianti di salute e «l’ospite furtiva» – come la chiama Gozzano – si sente ancora lontana.

In ogni caso sono del parere che la morte improvvisa, checché si dica, sia la peggiore di tutte: già non ricordiamo nulla della nascita, perché non vivere almeno la morte, avendo il tempo di raccomandare l’anima a Dio, stile buon ladrone (Lc 23,42)?