Domenica di Pasqua

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

La scorsa domenica il brano della Passione terminava con un accenno alle luci del sabato, il cui timido splendore già preannunciava la luminosità sfolgorante della Pasqua, mentre il nostro sguardo era invitato a soffermarsi sui gesti premurosi di Giuseppe di Arimatea; se un primo Giuseppe, lo sposo della Vergine, aveva accolto tra le braccia Gesù al momento della nascita, ora un altro uomo giusto si faceva carico della sua sepoltura. Accanto a lui le donne, venute con Gesù dalla Galilea, osservavano dove era stato sepolto il Signore, per poi tornare a casa a preparare aromi e oli profumati con cui ungere il cadavere. Questo semplice quadro in cui sembrano prevalere l’attenzione, la cura e la bontà, così in contrasto con la ferocia delle scene precedenti, ci permette ancora di sperare: quel dono infinito d’amore che si è consumato sulla croce sembra essersi comunicato al cuore di quell’uomo e di quelle donne che ora si prendono cura del corpo di Gesù. Ed è proprio con questo gesto di dedizione che inizia il vangelo della Veglia pasquale: sono ancora le stesse donne che di buon mattino si recano alla tomba con gli aromi, ma rimangono sorprese quando, entrando nel sepolcro da cui era stata rotolata via la pietra, non vi trovano il corpo del Signore. Quella tomba nuova, incontaminata, simile a un grembo di madre in cui un uomo chiamato Giuseppe, nome che evoca il mistero della paternità, aveva deposto il corpo del Figlio di Dio, è completamente vuoto. Nel segreto della notte è avvenuta una nuova nascita, la sola avente il pieno diritto di portare questo nome, poiché la Vita venuta al mondo è l’unica che non potrà mai essere contaminata dalla morte. Se davanti a questa assenza il lettore già intravede i segni della risurrezione, il vissuto delle donne è invece ben diverso. Come Maria davanti all’angelo nel momento dell’annunciazione (cf Lc 1,29b), esse si domandano qual è il senso di quanto stanno vivendo, soprattutto della sorprendente assenza del corpo di colui di cui erano state fedeli compagne di viaggio; subito dopo, però, quando i due uomini si presentano loro in abiti sfolgoranti, esse si lasciano afferrare dalla paura. Diversamente dalla Vergine la quale, dopo un istante di turbamento, si era immediatamente posta come interlocutrice dell’angelo, esse guardano in basso, al luogo della morte, dimenticando di alzare gli occhi al cielo; giustamente, quindi, i due annunciatori della risurrezione suggeriscono loro la necessità di ricordare, di creare il legame tra le parole dette da Gesù e ciò a cui stanno assistendo in quel momento. È quanto, invece, non riusciranno a fare i discepoli di Emmaus, tanto da indurre il Risorto, in cammino con loro, a definirli con l’appellativo di “stolti e lenti di cuore” (Lc 24,25). Ed è proprio l’immediatezza con cui le donne lasciano affiorare il ricordo delle parole del Signore, a cui subito dopo aderiscono con fede, che le rende annunciatrici e discepole, molto più autentiche rispetto agli apostoli, capaci solo di squalificarle o, come Pietro, di stupirsi, senza però aver fatto ancora il salto della piena fiducia. Cogliamo, dunque, in questa Pasqua l’invito a rileggere, proprio come fecero le donne, la nostra storia personale e quella del mondo circostante alla luce della Parola di Dio, la sola capace di donarci speranza.