Domenica di Pentecoste Gv 20,19-23

 
 

–  Spirito e lacrime: l’azione del Paraclito –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Siccome i vangeli sinottici sono poco ospitali verso lo Spirito Santo, la domenica di Pentecoste, che ne commemora la discesa, deve chiedere dei “prestiti pneumatici” a Giovanni. Questo aggettivo un po’ da… gommista risente della lingua greca, nella quale pneuma vuol dire anche spirito. Ho detto “anche” perché tale termine significa pure brezza leggera e gentile, e vento (Gv 3,8): elementi quanto mai adatti per connotare lo Spirito Santo, potenziato in vento impetuoso nella prima lettura odierna (At 2,1-11), che manda in scena la terza persona della santissima Trinità, come «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso».
Ma lo Spirito Santo è troppo raffinato per manifestarsi abitualmente in trombe d’aria. Preferisce la carrozzeria delicata della brezza leggera, quella appunto oggi alitata da Gesù risorto sugli apostoli. Goffissima la traduzione Cei 2008 che rende «Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”». Questo “soffiò” mi è insopportabile. Si può soffiare anche quando si è arci-strastufi di qualcosa, ma questa sfumatura semantica è poco riguardosa verso il Paraclito. Mi andava meglio “alitò” di Cei 1974. Il verbo greco emphusèo sopporta anche questa più educata traduzione. La Bibbia ama associare lo Spirito di Dio con vari elementi della natura: non può farne a meno se vuole farsi capire dagli uomini che vi sono immersi, massacrandola. Lo Spirito fin dall’inizio convive placidamente con le acque sulle quali aleggia (Gen 1,2) e lo troviamo ancora in compagnia idrica in un colloquio notturno fra Gesù e tal Nicodemo che gli suonò il campanello di casa nottetempo (Gv 3,5). È inoltre talmente versatile che, pur amando la consistenza equorea, si camuffa talora sotto lingue di fuoco – come capita nella prima lettura odierna (At 2,3) – plananti su cucurbite apostoliche che ne erano in attesa, senza peraltro immaginarne l’ardente manifestazione.
Ma l’elemento naturale col quale lo Spirito Santo più ama immedesimarsi è l’atmosfera, senza peraltro scadere in un grossolano panteismo. Lo Spirito è essenzialmente realtà immateriale e, fra tutte le realtà materiali, la più immateriale è l’aria: la senti, la respiri, ma non la vedi, non la tocchi, non la afferri. La Spirito di Dio è dunque come il vento: «Ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va» (Gv 3,8). Il Divino, per rapportarsi all’umano, deve ricorrere a una pur minima sensibilità di immagine, perché nulla sale al pensiero dell’uomo se prima non è passato attraverso i sensi. I filosofi scolastici avevano forgiato il seguente assioma: Nihil est in intellectu quod prius fuerit in sensu  (= non vi è nulla nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi), che leggiamo sostanzialmente incapsulato in una terzina dantesca (Paradiso IV 43-45): «Per questo la Scrittura condescende / a vostra facultade, e piedi e mano / attribuisce a Dio e altro intende».
La spinta più suggestiva verso l’immaterialità dello Spirito di Dio la troviamo in 1 Re 19,12, ove il profeta Elia riesce, a tappe successive, a sintonizzarsi su Dio intercettandone la voce sotto «il sussurro di una brezza leggera». La traduzione Cei (e altre) è timida, perché non accetta il fascino dell’assurdo ebraico, propriamente recitante «sotto voce di silenzio leggero», ottenendo un risultato ancora più silenzioso del silenzio! Questo silenzio eloquentissimo è il massimo cui possa giungere il pensiero umano per dare consistenza all’essere di Dio, da intendersi dunque come un “silenzio parlante”.
Torniamo ora nel cenacolo ove il risorto è apparso agli apostoli, assente Tommaso: mostra loro le sue credenziali, mani e fianco cicatrizzati, porge loro l’augurio di pace – ben diversa dalla mondana e diversamente procurata (cfr Gv 14,27) – e trasmette loro lo Spirito Santo finalizzato in direzione sacramentale: «A Coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».  Si discute se Gesù, così dicendo, avesse in mente la poenitentia prima (= battesimo) o la poenitentia secunda (= sacramento della riconciliazione).

Che il battesimo sia un detersivo soprannaturale contro il peccato originale, e gli altri aggiuntivi in caso di adulti, è fuori discussione. Il sacramento della riconciliazione – confessione per intenderci – è efficace su tutti i peccati commessi dopo il battesimo. In ambo i casi lo Spirito da solo non ce la fa. Scrive sant’Ambrogio (Lettera 41,12) che «la Chiesa dispone di acqua e di lacrime: l’acqua del battesimo e le lacrime della penitenza». In ambo i sacramenti è in azione lo Spirito Santo che, per non smentire la sua propensione idrica, si avvale di questi due liquidi, il secondo dei quali è il più nobile di tutte le secrezioni umane. Spirito e lacrime dunque: una splendida miscela tra l’umano e il Divino, nella quale il Paraclito può intendersi come consolatore.