Festa della Chiesa locale Gv 17,11-23

 
 

Nell’unità di Padre e Figlio converge l’umanità –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Questa domenica la festa della Chiesa locale ci fa deviare da Matteo su Giovanni, proponendo due tagli evangelici alternativi. Opto per Gv 17,11-23, non più letto nel ciclo domenicale da quando l’Ascensione ha usurpato la settima domenica di Pasqua: misfatto degli anni ’70.

Siamo nell’ultima cena. Gesù si espande su un lungo discorso che parte da subito dopo la lavanda dei piedi. Questo inatteso pediluvio in Giovanni tiene il posto dell’istituzione dell’eucaristia, tema peraltro trattato doviziosamente nel sermone di Cafarnao (6,26-58).

Il discorso dell’ultima cena non è un comizio, ma un elevato colloquio con amici – gli apostoli – che occasionalmente interpellano il Maestro. Interessante è pure l’anatomia letteraria: nei capp. 13-16 Gesù parla ai discepoli del Padre; nel capitolo 17, onde leggiamo questa domenica, con un’agile giravolta Gesù ribalta la prospettiva e parla al Padre dei suoi discepoli, che a lui raccomanda. È la grande «preghiera sacerdotale» di Gesù, come viene convenzionalmente e opportunamente denominata. Il Nuovo Testamento è estremamente spilorcio nel riconoscere a Gesù la qualifica di «sommo ed eterno sacerdote» (come da Messa votiva in Messale Romano 1983, p. 840), tanto che ha dovuto mobilitarsi la Lettera agli Ebrei per blasonargli tale qualifica. Ma non è necessario che ci sia il titolo perché ci sia il ruolo.

Il capitolo 17 di Giovanni riporta la più estesa espansione del Figlio verso il Padre, consentendoci di curiosare in questa augusta parentela. Solitamente il rapporto dal Figlio al Padre è liquidato in poche occasionali parole (Mt 11,25-27; Gv 11,41-42), tra cui i notissimi sussulti nel corso della passione.

Gesù si pone su un elevato punto di osservazione che lo autorizza a dire: «Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te, Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi». Se ho contato giusto la parola mondo nel passo di questa domenica ricorre una decina di volte. È dunque una parola tematica e, nel Vangelo di Giovanni, trivalente, ossia utilizzata con tre significati: il mondo nel senso di cosmo, in quanto complesso della creazione (Gv 1,10a; 17,5); il mondo in quanto complesso delle potenze in contrasto col piano di Dio (Gv 1,10b; in quasi tutte le ricorrenze del cap. 17); il mondo in quanto oggetto di redenzione e salvezza (Gv 3,16-17). Il mondo nel vangelo di questa domenica non fa una gran bella figura, perché, in definitiva, viene satanizzato!

Si afferma in questo brano l’unità tra Padre e Figlio, prospettata come modulo di convergenza umana. Quanto più questa si riesce a realizzare – siamo ancora lontanissimi – tanto più si mette a fuoco la nostra “immagine e somiglianza” con Dio del progetto originario (cfr. Gen 1,26-27). Per adesso più che a Dio sembriamo a Dracula o a Mister Hyde!

Gesù sembra soddisfatto quando può dire: «Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione». Chi era costui? Verrebbe da pensare a Giuda, il quale però prima di impiccarsi, «preso dal rimorso» (Mt 27,3), restituì brutalmente i soldi di quella criminale compravendita. Che senso dare a questo rimorso di Giuda? Forse è eccessiva la traduzione Cei 2008 «preso dal rimorso», come pure la traduzione Cei 1974 «si pentì». Il greco usa il verbo metamelèomai, più sul versante del ripensamento intellettuale (cambiare idea) che doloroso. Dante non ha dubbi che il mariuolo sia finito all’inferno, trattato da Lucifero come gomma da masticare (Inferno XXX 55-57) insieme con Bruto e Cassio, i traditori che accoltellarono Cesare (34 a.C.), ostetrico del nascente impero romano per cui tifava «il ghibellin fuggiasco», come lo chiama il Foscolo.

Torniamo a noi. Gesù continua dichiarando e ribadendo una doppia estraneità al mondo: «Essi non sono del mondo come io non sono del mondo». “Essere del” e “essere nel” non sono la stessa cosa. Essere del mondo significa condividerne gli stili e la mentalità, non sempre edificanti. E si può stare nel mondo prendendo le distanze dal modo poco edificante di viverci.

«Consacrali nella verità», continua Gesù. Più avanti un Pilato un po’ frastornato gli domanderà: «Che cos’è la verità?». È la domanda che percorre tutta la storia del pensiero occidentale: dall’adaequatio intellectus ad rem dei filosofi scolastici, al Cogito ergo sum di Cartesio, al verum est factum di Vico. Nulla di tutto questo ha cittadinanza nelle parole di Gesù. Dobbiamo prendere il termine etimologicamente. In greco alètheia (= verità) deverba da (a-)lanthàno (= non nascondo). La verità è dunque svelamento totale, richiesto con struggimento a Dio da Mosè nella sua quarantena (Es 34,28) sul Sinai: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18). Ma era troppo in anticipo su chi disse «io sono la verità» (Gv 14,6).