Fuga da Dio
Sistemare Dio nello spazio è impresa ardua. Eppure se e quando ci si chiede dov’è Dio, infondo lo ricerchiamo nello spazio. Il catechismo tradizionale, quello che i meno giovani hanno studiato a memoria, a tale domande rispondeva:
Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo. Egli è l’immenso.
Evidente risposta spaziale. Ma non esiste un’unità di misura divina! Le distanze interstellari si misurano in anni-luce, inadeguati per Dio. Diciamo allora sballata la domanda “dov’è Dio”. Diciamo semplicemente che Dio è, punto. Siccome non ha senso una sua posizione spaziale, dobbiamo cambiare sistema di pensiero nei suoi confronti. Dio non lo si percepisce nello spazio, ma nel pensiero, come splendidamente documenta il salmo 138 nei suoi versetti iniziali:
Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu mi conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri,
osservi il mio cammino e il mio riposo,
ti sono note tutte le mie vie.
La mia parola non è ancora sulla mia lingua
ed ecco, Signore, tu la conosci tutta.
(vv. 1-4)
La domanda giusta dunque non è “dove si trova Dio” ma “come si pone nei miei confronti”. Si spreme da questi versetti una risposta imbarazzante e inquietante insieme. E’ inquietante che Dio mi scruti. Nello scrutare si coglie un’occhiuta attenzione, forse addirittura con intenti sanzionatori, se lo scrutato non soddisfa lo scrutante. Viene un po’ in mente lo scrutinio scolastico per decidere promozione o bocciatura dello studente! Ma si dice anche “scrutare l’orizzonte” all’appassionata ricerca dell’incognito oltre la sua linea. Ma non è il caso di Dio al quale nulla è incognito.
Lo scrutarmi di Dio forse significa che non mi perde mai di vista: non è da intendersi come acutezza di osservazione che certamente non gli manca, ma come osservazione costante senza la minima deviazione su altro, pur avendo egli presente tutto il resto. Dio non mi perde mai di vista, al contrario della mia intermittente, se non occasionale, attenzione su di lui.
E poi “mi conosci”. C’è qui la globalità dello sguardo divino su di me, esemplificata nei versetti successivi, elencanti alcuni dei miei atteggiamenti, quotidiani e banali: “mi siedo e mi alzo”. Cui segue l’ermetico “intendi da lontano i miei pensieri”. Non è una lontananza spaziale, ma un giocare di largo anticipo: Dio conosce il mio pensiero da molto prima che sia formulato nelle mie meningi. La stessa cosa vale per la mia parola, non ancora sulla lingua, eppure da Dio già perfettamente udita.
Per questa insondabile capacità cognitiva di Dio, dopo “mi scruti” il salmista dice “e mi conosci”. Mi conosce di una perfetta conoscenza non solo scientifica ma soprattutto amante. In Dio non c’è differenza fra conoscenza e amore, né potrebbe essere diversamente se Dio è amore (1 Lettera di Giovanni 4,8. 16).
E il verso 6 conclude questa prima parte:
Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. (v. 6).
Qui siamo arditamente oltre la razionalità: si definisce meraviglioso qualcosa che sfugge alla mia osservazione e si espande oltre i limiti angusti del mio pensiero. E’ impossibile ragionare di Dio senza inciampare in contraddizioni.
Il salmista sembra imbarazzato in questa situazione se subito dopo aggiunge:
Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? (v. 7).
L’imbarazzante presenza divina sperimentata da Pietro subito dopo la pesca miracolosa: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” (Luca 5,8).
Seguono alcune poetiche ipotesi di fuga da Dio:
Se salgo in cielo, là tu sei;
se scendo negli inferi, eccoti.
Se prendo le ali dell’aurora
per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
Dalla presenza divina non c’è scampo! Il salmista sembra persino disturbato dall’inesorabile presenza di Dio, paradossalmente vorrebbe esserne esonerato; ma Dio imperterrito lo scruta e lo conosce.
Il perseguitato salmista chiede l’oscuramento totale:
Almeno le tenebre mi avvolgano
e la luce intorno a me sia notte (v. 11)
persino
Niente da fare! Nemmeno le tenebre per Dio sono tenebre.
E la notte è luminosa come il giorno;
per te le tenebre sono come la luce (v. 12)
Potrei andare avanti, ma il salmo è lungo e non ci sta in questo ridotto spazio cartaceo. Voglio tuttavia esternare la mia ammirazione per quel popolo che ha prodotto tali capolavori letterari e di pensiero: il popolo storicamente più tartassato, benché abbia introdotto nei circuiti religiosi e culturali un’immagine così alta di Dio. Di un Dio per giunta unico, senza colleghi, sovrabbondanti invece nella cultura antica che si confezionava una pleiade di divinità da barzelletta! Un Dio avvertito vicino e presente, tanto da divenire per gli Ebrei orgoglio nazionale come si legge nel libro del Deuteronomio: “Questa nazione è il solo popolo saggio e intelligente. Infatti quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?” (Dt 4,6-7). E sì che nello stesso Deuteronomio (7,1) si menzionano popoli più grandi e potenti del popolo ebraico1. Ma si tratta di un modulo raso terra di superiorità, concepito banalmente in termini di superiorità numerica, militare, economica, secondo la logica politicamente dominante ai nostri squallidi tempi.
La genialità e grandezza dell’Antico Testamento sta nell’avere percepito, affermato e difesa l’idea, che è una realtà, dell’unicità divina. Non un Dio che sta per i fatti suoi, ma che si intrufola nelle vicende umane e “mi scruta e mi conosce”. Se percepiamo in qualche modo chi è Dio e ci crediamo, non esito a dire che il martoriato popolo d’Israele sia stato per l’umanità il più benemerito in assoluto.
Immagino che questa dichiarazione trovi scarsi consensi perché l’anti-semitismo non è del tutto estinto, come dimostrano dolorosi episodi di riaccensione improvvisa. E poi, ancora più terribile, Dio nel mondo una volta cristiano è sempre più cestinato socialmente, politicamente e culturalmente.
Lo si è visto ancora una volta nella frigida cerimonia bergamasca di commemorazione delle vittime di covid-19. Si è piantato un tiglio da intendersi simbolicamente come speranza di rinascita, come si faceva anni fa alla festa degli alberi. Ma a parer mio, e spero non soltanto mio, sarebbe stata meglio una croce, tollerata, ritengo, pure dal “politicamente corretto” perché è ormai divenuto simbolo universale della morte.
Ho sentito in parte il discorso di un noto sacerdote cattolico, non privo di eroiche benemerenze, nella giornata della memoria (21/03 u.s.) delle vittime di mafia e affini. Nel pezzo che ho sentito ha reclamato soltanto giustizia umana, vituperandone la lentezza, come se fosse facile farla! Spero che si sia ricordato della giustizia divina nella parte da me non ascoltata.
Se così non fosse, mi verrebbe voglia di parlare di ateismo clericale, di certo non professato da san Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 quando ad Agrigento vigorosamente ricordò a mafiosi e compagnia briscola il giudizio di Dio: il famoso “verrà un giorno …!” di Padre Cristoforo a don Rodrigo.2 Il giorno del nostro parto dal tempo invecchiante all’eternità (dimenticata). Ma di che tipo?