Gesù il semplificatore
Semplificare è sempre meglio di complicare.
Semplificare è sempre meglio di complicare. L’antica religione ebraica era di una complicazione cultuale massacrante. Il culto doveva essere celebrato secondo regole precise e sofisticatissime. Un piccolo sgarro poteva costare la vita. Ne sa qualcosa un certo Uzza che ai tempi di Davide (primi decenni del X secolo aC), avendo toccato con le migliori intenzioni qualcosa non di sua pertinenza, ci ha immediatamente lasciato le cuoia (2 Samuele 6,1-8). Non soltanto complicazione dunque, ma complicazione pericolosa!
Quando poi si trattava di compiere sacrifici, da intendersi come azione sacra, interi armenti e greggi venivano scannati. Oggi gli animalisti avrebbero protestato vibratamente e con buone ragioni. Nella dedicazione del tempio di Gerusalemme (circa 960 aC) il re Salomone avrebbe scannato la bellezza di ventiduemila giovenchi e centoventimila pecore (2 Cronache 7,5)!(1)
Era persuasione diffusa che Dio fosse contento, non per suoi eventuali gusti da vampiro, ma perché nel sangue versato era implicita una donazione di vita, seppure effettuata per comoda procura zoologica. Ma non mancavano già allora prese di distanza da queste macellerie cultuali (cfr Salmo 49,12-15; Isaia 1,10-13).
Per fortuna è arrivato Gesù a riportare il senso della misura, semplificando il tutto. Anziché ammazzare povere bestie che non c’entrano, ha accettato di essere ammazzato lui una volta per tutte (cfr Lettera agli Ebrei 7,27; 9,12; 10,10). E ha lasciato in anticipo il ricordo di questo suo auto-sacrificio consumato sulla croce: l’istituzione dell’Eucaristia nel corso dell’ultima cena, consegnata agli apostoli con la memorabile formula “fate questo in memoria di me” (Vangelo di Luca 22,19; 1Corinti 11,24.25). Curioso che il ricordo avvenga prima dell’evento ricordato. In genere capita il contrario, invece Gesù è morto il giorno dopo!
Il supremo atto di culto affidato alla Chiesa, l’Eucaristia, è stato istituito da Gesù in una cornice conviviale. Ecco la massima, geniale semplificazione introdotta la Gesù. Vengono in automatico delegittimate le mega celebrazioni che si compivano nel tempio di Gerusalemme, peraltro non più praticabile perché distrutto nel 70 dC e non più rimesso in piedi.
Non pare che ci siano stati preavvisi agli apostoli circa ciò che Gesù avrebbe fatto quella sera. A Cafarnao c’erano state anticipazioni eucaristiche in un lungo, sconcertante discorso da lui tenuto (Vangelo di Giovanni 6,22-59), senza però che giocasse a carte scoperte: ha lasciato tutti col fiato sospeso fino all’ultima cena, nella quale ha rivelato a pochi – i dodici apostoli – cosa avesse voluto dire a Cafarnao prospettando il suo corpo e il suo sangue come alimenti per la vita eterna (Vangelo di Giovanni 6,52-58), mascherati sotto le parvenze del pane e del vino.
Per il culto non occorrono più strutture apposite, tipo tempio e altare: basta una mensa attorno alla quale ci si siede. E su quella mensa si produce l’Eucaristia inverando le presenza reale del corpo e sangue di Cristo. La genialità di Gesù sta dunque nell’avere inserito lo straordinario nell’ordinario, ossia il mirabolante ritrovato eucaristico nella quotidianità di una mensa imbandita2.
Ma se Gesù è stato un geniale semplificatore, l’uomo è un farraginoso complicatore. Progressivamente la mensa in legno come culla eucaristica è parsa insufficiente e poco riguardosa. Allora dalla legna si è passati alla pietra, ma sempre con parvenza di mensa. Ma trapanando col pensiero teologico l’Eucaristia, ne è emerso alla consapevolezza ecclesiale il contenuto sacrificale: infatti l’Eucaristia è il sacramento del sacrificio della croce.
La cornice è commensale ma il contenuto è sacrificale, perché si ha a che fare col corpo e sangue di Qualcuno, offerti a Dio in sacrificio a salvezza degli uomini. Le vigenti preghiere eucaristiche recitano infatti: “… questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi”. E’ una rifinitura liturgica, perché nei Vangeli non leggiamo riferimenti sacrificali ma semplicemente “questo è il mio corpo”, punto (Matteo e Marco). Luca implementa con “dato per voi”. Bene fanno comunque i testi liturgici a specificare l’indiscutibile carattere sacrificale di quella donazione. Se dunque l’Eucaristia è sacrificio, la mensa non va più bene e bisogna darle parvenza di altare. E così ecco gli altari monumentali che si elevano nel presbiterio, sormontati di gradoni decorati di fiori e candelieri. E via andare. Esagerato tutto questo? Forse no e forse sì.
Forse no, perché all’origine ci sono le migliori e più sincere intenzioni: riguardo, venerazione, adorazione verso l’Eucaristia che si merita questi atteggiamenti di religiosità. Forse sì, perché inconsapevolmente si sono tradite le intenzioni istitutive di Gesù, che voleva un’Eucaristia commensale e non sensazionale. Attorno a una mensa però possono prendere posto solo pochi commensali. Quando la Chiesa è divenuta moltitudine si è preso facilmente atto che non potevano tutti sedere a mensa. E nelle grandi basiliche sovraffollate, senza possibilità di dialogo con l’assemblea per mancanza di amplificazioni acustiche, il celebrante si è progressivamente isolato nell’abside della chiesa, voltando per giunta le spalle alle gente, che si sentiva sempre più tagliata fuori anche perché non comprendeva più la lingua liturgica, il latino. Quindi, per tutte queste ragioni e altre ancora, la mensa si è trasformata in altare.
L’unico contatto fra celebrante e assemblea era l’omelia. Ma per portarla alle orecchie di tutti era necessario avvicinare il celebrante all’assemblea: l’ambone viene trasferito in centro chiesa, a posizione elevata, e prende il nome di pulpito. Da lassù scendeva il sermone sulla sottostante assemblea.
Ma la storia conosce anche dei dietrofront! Le tecniche moderne di amplificazione acustica hanno facilitato l’incontro fra celebrante e assemblea: la voce del primo giungeva alle pluri-orecchie della seconda. Rimaneva soltanto la distanza spaziale, non più quella del comprendonio acustico. E rimaneva pure l’intoppo del comprendonio intellettuale, perché la liturgia parlava latino. Ci ha pensato il Concilio Vaticano II (1962-65), riducendo se non addirittura demolendo il latino per fare spazio alle lingue viventi e parlate. Cosa allora impediva che l’altare potesse tornare mensa e il celebrante potesse dire “fate questo in memoria di me”, guardando i destinatari dell’ingiunzione, come è spontaneo in ogni tipo di comunicazione? E così con slancio inizia il giravolta degli altari. Si installano trabiccoli tapini agli inizi e progressivamente si giunge a soluzioni definitive: alcune discutibili, altre dignitose, altre persino nobili. Ma non sono mancate neppure autentiche devastazioni architettoniche. A prescindere dalla valutazione degli arrangiamenti, l’Eucaristia si è riadeguata alle intenzioni del suo ideatore: una mensa attorno alla quale ci si guarda in faccia; sulla quale si compie l’atto più eccelso che Dio abbia concesso agli uomini: rinnovare sotto le parvenze del pane e del vino, in una simbolica convivialità, il sacrificio della croce.
Si trasmette in tal modo il messaggio che l’Eucaristia è necessaria al cristiano come l’ordinario nutrimento. Ma non è il solo nutrimento, se è vero che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Deuteronomio 3,8; Vangelo di Matteo 4,4). Con queste parole Gesù nel deserto stende il diavolo alla sua prima malriuscita tentazione. Il toccato episodio ci insegna che la Bibbia è parola di Dio non meno di quanto l’Eucaristia sia corpo e sangue di Cristo. Si dà dunque un doppio alimento canalizzato per due differenti ma complementari itinerari nutritivi: l’Eucaristia per via orale e la Parola di Dio per via auricolare. Entrambi si metabolizzano nella mente dei fruitori, se bene intenzionata.
1 Si sa che in certe circostanze e numeri biblici sono un po’ sparati.
2 Seppure l’ultima cena sia stata consumata molto probabilmente in un contesto pasquale.