II domenica tempo ordinario Gv 2,1-11
L’amore va coltivato in Dio
Il brano evangelico di questa domenica sulle nozze di Cana ha molte porte di entrata a tanti aspetti della nostra vita spirituale. Il paradigma del matrimonio viene usato per spiegare l’arrivo della salvezza ed è il primo dei segni compiuti da Gesù. Parliamo di segno non di miracolo. Il segno è qualcosa che rimanda a un significato; la parola miracolo invece è semplicemente una cosa che in se stessa avviene ed è straordinaria. Il racconto di questo miracolo è quello di un segno paradigma del rapporto con Dio e viene mostrato attraverso la manifestazione di quel dato umano meraviglioso, bellissimo, gioioso che è la festa di nozze.
Gesù inizia il suo ministero pubblico manifestandosi in un matrimonio. È la storia di un matrimonio umano in cui irrompe, per intercessione della Beata Vergine Maria, la potenza di Dio personificata in Gesù Cristo, colui che aiuta i due coniugi ad arrivare a un buon esito del loro matrimonio. È la storia di una cerimonia di nozze in cui finisce il vino. Il matrimonio è il paradigma delle relazioni affettive e delle relazioni umane, delle sponsalità di ogni tipo che noi possiamo vivere: l’amore coniugale, amicale, paterno, materno, filiale. E l’amore conosce sempre una crisi perché il vino, per noi creature finite, viene meno: questa è la condizione umana. Tutte le esperienze d’amore possono vivere un momento di deserto, di vuoto, di aridità, magari non si sa più come andare avanti. Il vino rappresenta la gioia, la felicità, la pienezza, l’allegria, l’ebbrezza, il sapore, il colore. La crisi non arriva perché si è sbagliato matrimonio, ma è dalla crisi in poi che comincia il vero matrimonio. Dal momento dello scontro il rapporto di collaborazione inizia a diventare autentico.
Arriva anche un momento traumatico della paternità, della maternità: la rottura con il figlio, il giorno in cui non si riesce più a comunicare, non si sa più che fare. La vita umana è chiamata a fare qualcosa per cui l’uomo non basta: è una chiamata all’amore che chiede di andare oltre se stessi; bisogna superare l’angusto steccato delle proprie capacità personali, la zona delle proprie possibilità.
Amare fino in fondo, amare veramente non è un atto per cui basta la buona volontà: essa può soltanto predisporre alla grazia. L’amore – carità – è una virtù teologale, viene da Dio ed Egli lo dona. È vero che nel cuore dell’uomo è scritto il solco dell’amore, e tante persone di ogni credo si aprono ad esso in maniera bellissima, ma “vincere il nulla” lo fa soltanto il Creatore. Il Signore si manifesta in quel momento in cui si compie questo atto che sembra assurdo: riempire di acqua le anfore. «Qualunque cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5), esorta Maria. È molto importante arrivare al proprio limite per scoprire che Dio, in quel momento, ci chiede obbedienza, ci propone di agire secondo il suo ritmo, di seguire la sua ricetta, di non obbedire più alle nostre strategie e di passare alle sue. È il consiglio della donna che ha risposto all’arcangelo Gabriele: «Avvenga in me secondo la tua parola, secondo quello che tu dici» (Lc 1,38).
Nella vita tentiamo di salvare la nostra situazione ma, a un dato momento, scopriamo di non farcela. Quella è l’occasione per mettersi nelle mani di Dio e obbedirgli, provarci almeno, di passare alla sua strategia.
Che il Signore ci conceda di vedere come Egli si manifesti nella nostra povertà e per mezzo della nostra povera, umile obbedienza. Curiosamente Gesù cambia l’acqua in vino senza muoversi da dove sta: saranno i servi a fare il miracolo, saranno loro a riempire di acqua le anfore e a portarle al maestro di tavola. Il miracolo lo fa fare a noi. Lui ci spiega come agire e saranno le nostre mani a fare la cosa bella.
Che il Signore ci conceda di conoscerlo nell’obbedienza, la via per uscire dai nostri vuoti.