III domenica di Quaresima

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Questo brano è stato spesso impropriamente utilizzato per giustificare il nostro comportamento, gli scatti di ira, il mancato controllo dell’aggressività. “Anche Gesù si è arrabbiato”, diciamo e ci fermiamo a una lettura superficiale e distorta del testo. Sarebbe infatti riduttivo pensare che Gesù si comporta così perché si infastidisce vedendo tutto quel commercio e, preso dall’ira, incomincia a scacciare tutti al di fuori del tempio e a gettare a terra denaro e banchi dei venditori. Anche se si trattasse solo di questo, il coraggio di Gesù, che si sarà guadagnato l’odio e il rancore di commercianti e sacerdoti, sarebbe già di per sé ammirevole. Il suo comportamento, tuttavia, ha un significato molto più profondo: si tratta, infatti, di un gesto profetico in relazione a quella Pasqua che si stava avvicinando. Il senso del suo agire, la chiave interpretativa del suo comportamento si trova nelle prime parole che egli pronuncia: “Non fate della casa del Padre mio un mercato”. Per comprenderle è necessario andare al di là del loro significato immediato: Gesù non si limita a stigmatizzare il fatto che proprio il tempio sia diventato un luogo di commercio, ma mette in questione il modo con cui noi ci rapportiamo con Dio. L’essere umano, infatti, è spesso tentato dal bisogno di creare rapporti utilitaristi, basate sul criterio del reciproco vantaggio, del dare in funzione dell’avere. Ciò non avviene solo nei confronti degli altri, ma anche di Dio. Lo chiamiamo Padre ma in realtà ci mettiamo in relazione con lui come se fosse il nostro padrone, disposto ad acconsentire ai nostri desideri purché gli si offra qualcosa in cambio. Abbiamo assimilato una mentalità mercantile proprio come il fratello maggiore della parabola, il quale rivendica dei diritti per il fatto di aver servito, mentre il padre è disposto a condividere con lui ogni sua proprietà (cf Lc 15,11ss). Proprio perché padre, Dio non vuole essere comprato dai nostri sforzi o dalle nostre opere, ma ci offre per puro dono di vivere in comunione con lui. La scena successiva mostra i giudei, i quali hanno compreso che il gesto di Gesù sembra rivendicare un’autorità e per tale motivo gli domandano un segno; egli risponde parlando di distruzione e riedificazione. Naturalmente i suoi interlocutori, che stanno pensando al tempio di pietra, replicano a tali parole sottolineando l’impossibilità di realizzare un simile progetto e forse anche la sua mancanza di senso, la follia implicita in esso contenuta. A questo punto interviene l’evangelista, il quale spiega come il tempio di cui si sta parlando è il corpo del Signore ed è proprio su questa affermazione che la nostra attenzione può fermarsi perché qui si colloca il significato vero di questo brano. Esso, più che parlare di distruzione e riedificazione, evoca una sostituzione. Se fino a quel momento il tempio era stato il luogo in cui si poteva incontrare Dio, con la Pasqua del Signore è nel suo corpo che si realizza il contatto più intimo, più stretto dell’uomo con Dio. In Gesù noi superiamo ogni tentazione di instaurare con Dio una relazione basata sul “do ut des” ed entriamo invece in una comunione in cui tutto è condiviso, dove siamo uniti a lui come i tralci alla vite (cf Gv 15). Non si tratta, quindi, di preoccuparsi di dare o ricevere, ma di condividere e rimanere in relazione con lui di cui possiamo far parte proprio perché egli nella Pasqua ha donato il suo corpo per noi.