Il rito del silenzio

Fra i vari riti liturgici c’è anche il rito del nulla, che è il silenzio. Lo chiamo rito del nulla perché è un vuoto di parola, così come l’inerzia è un vuoto di azione.

Il precedente regime liturgico prevedeva il sottovoce ma non ritualizzava il silenzio. Gli attuali libri liturgici invece lo rubricano annotando quando deve essere osservato. Nella Messa ad esempio ne sono segnalati quattro o cinque. Per essere avvertiti come elemento rituale, devono avere una certa consistenza cronologica, perché il silenzio non sia un semplice stacco ma un modo di porsi dinanzi a Dio.

Non si tratterà di silenzi di mezz’ora ciascuno: sono da dosarsi in base alla durata globale della celebrazione e alla capacità dell’assemblea di dargli significato.

L’accennata mezz’ora di silenzio mi è suggerita da un silenzio cosmico/liturgico osservato in Ap 8,1: «Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora». Un silenzio ancora più “frastornante” perché frapposto improvviso fra i clamori dell’affollata scenografia dell’Apocalisse. Il silenzio infatti dà più nell’occhio (o nell’orecchio) quando giunge improvviso dopo un grande vociare di folla festante. Visto l’impianto liturgico dell’Apocalisse, quel silenzio fa al caso nostro, perché lo potremmo definire silenzio ritualizzato, inserito nell’architettura della più smagliante di tutte le liturgie. Anche l’ultimo libro della Bibbia avverte la necessità del silenzio come rito del riposo, per evitare affaccendamenti rituali. Nel contempo quel silenzio prepara animi e voci al successivo settenario dell’anti-silenzio: quello delle trombe. Un silenzio previo, dunque, non privo di souspence.

Abbiamo un “silenzietto” di minor pretesa pure in At 21,40, quando a Paolo viene concessa dal tribuno Claudio Lisia la facoltà di parlare in propria difesa. Annota Luca: «Egli [il tribuno] acconsentì e Paolo, in piedi sui gradini, fece cenno con la mano al popolo; poi si fece un grande silenzio ed egli si rivolse loro ad alta voce in lingua ebraica». L’ho chiamato prima “silenzietto” perché non di dimensione cosmica come quello di Apocalisse visto prima, ma in realtà quel silenzio era grande, come l’attesa che aveva generato. Grande perché era un silenzio di moltitudine, un po’ come quello che si genera davanti alle nostre chiese quando arriva il carro funebre. Il vociare improvvisamente si attenua sino a estinguersi: è una delle magie della morte.

Ma il silenzio più impressionante per la sua grandiosità galattica lo captiamo in Sap 18,14: «E mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, / e la notte era a metà del suo rapido corso, / la tua parola onnipotente dal cielo, / dal tuo trono regale, / guerriero implacabile, si lanciò in quella terra di sterminio». Queste parole, così silenziosamente rombanti, sono diventate un’antifona d’ingresso del tempo di Natale (30 dicembre, II domenica dopo Natale). La fantasia liturgica del Natale vi ascolta la silente discesa del Verbo che si fa carne e viene ad abitare fra noi (Gv 1,14). Essa, rimanendo noncurante dei clamori bellici che vi sono racchiusi, gode il beato stordimento di quel divino silenzio che con vittoriosa possanza porta pace e salvezza.

Né va dimenticato che la “brezza leggera” di Elia sull’Oreb (1 Re 19,12) è traduzione un po’ illuministica di “voce di silenzio sottile” ricorrente alla lettera nell’originale ebraico. Splendido per la sua incomprensibilità! Nulla di più stupefacente per dire che il silenzio sapientemente ascoltato è la voce stessa di Dio. Per apprezzare certi silenzi biblici, occorre dare fiato alle trombe della fantasia.

E ora un po’ di fenomenologia del silenzio. Il silenzio può esserci e può essere fatto. Laddove c’è morte il silenzio “c’è”. E’ assurdo pensare frastuono sulla luna, ove mancano le condizioni ambientali perché possa esserci. Non essendoci atmosfera, non c’è vita e, laddove non c’è vita, il silenzio è garantito, senza alcuno sforzo. Il baccano è prodotto dai viventi, e da questi percepito. E’ quindi necessaria vita perché il baccano o sia, o sia rilevato. Tra i viventi il silenzio “non c’è”, ma può essere fatto. Diversamente che senso avrebbe l’intimazione «fate silenzio!»? Il silenzio è più solenne quando “è fatto” che quando “c’è”. Comprendiamo allora perché uno dei grandi Maestri del silenzio, San Benedetto, intitola De taciturnitate il capitolo VI della sua Regula. Evidentemente perché era pioniere della mistica del silenzio che ho grossolanamente sbozzato.

Dopo questa amplificata apoteosi del silenzio, vediamo di calarlo nella liturgia vissuta. Quali siano le oasi silenziose nell’arco nella celebrazione eucaristica, lo sappiamo benissimo: atto penitenziale; tra l’invito “preghiamo” e la susseguente preghiera; dopo la lettura del Vangelo o dopo l’omelia, terminata la distribuzione dell’Eucaristia. Insomma: nei momenti-culmine sta bene un frammento di silenzio per matabolizzare spiritualmente quanto si è appena detto o fatto. V’è poi un altro silenzio, forse ignorato, su cui vorrei richiamare l’attenzione: all’inizio della liturgia eucaristica. Le formule giudaiche di presentazione del pane e del vino («Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo …») non hanno nessun dovere di essere pronunciate sonoramente. Messale Romano 83, p. 308: «Il sacerdote, all’altare, prende la patena con il pane e tenendola leggermente sollevata sull’altare, dice sottovoce: Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo …». E analogamente si comporta col pane. Dopo entrambe le formule ricorre la seguente rubrica: «Se non si esegue il canto di offertorio, il sacerdote può dire questa formula ad alta voce». Dunque: 1. le benedizioni s’hanno da dire; 2. s’hanno da dire sottovoce; 3. si possono dire ad alta voce. La mens del Messale pare dunque quella di approfittare di questo momento liturgicamente non vertiginoso, per un riposo rituale che trova consistenza nel silenzio (purché quelle formule non siano biascicate con sibili dentali). Il Messale dunque prevede un po’ timidamente la possibilità di ripristinare il primitivo montaggio dell’offertorio che prevedeva il gesto di offerta (sollevazione del pane del vino) e, come unico parlato, l’autorevole e bella preghiera sulle offerte, pronunciata ad alta voce e siglata dall’Amen di assemblea. Così risulta ancora l’offertorio ai tempi di sant’Agostino. Le varie altre preghiere sottovoce, ora notevolmente sfoltite, sono retaggio di un epoca – quella carolingia – in cui si era perduta la mistica benedettina del silenzio, in favore del parlato ad oltranza.

Così pure alla comunione: va bene che si canti ma, specie se lunga, i timpani stessi reclamano il benefico riposo acustico del silenzio. Quindi uno stacco apprezzabile fra un canto e l’altro, oppure fra le strofe dello stesso canto.

Ma il silenzio liturgico ha il suo antefatto in sacrestia, che è divenuta una specie di parlatorio, prima e dopo la Messa: al punto che quasi dappertutto, per un minimo di decenza, è stata tolta la melanconica scritta silentium. Perché lasciarla se non viene osservato? Questa incapacità, o non volontà (peggio ancora) di silenzio, deve farci riflettere. Le nostre inevitabili scorribande domenicali da una chiesa all’altra per portare la Messa rischiano di farci degenerare in fattorini del sacro. Il rischio è reale se non approfittiamo dei mezzi che la liturgia stessa, o l’ambiente (= sacrestia), ci offrono, per il rientro in noi stessi quando siamo in procinto di fare ciò che di più sacro la Chiesa possiede.

Sant’Agostino, a proposito del sale da mettersi sulle labbra dei catecumeni, in procinto di battesimo, parla di sacramentum salis (De catechizandis rudibus). Si era in un’epoca in cui i sacramenti non avevano ancora l’attuale statuto dogmatico. Mi verrebbe voglia, dopo questa chiacchierata, di coniare la formula sacramentum silentii : se il bianco è la somma di tutti i colori, il silenzio è la somma di tutte le melodie. Perché allora non riconoscergli uno spessore semi-sacramentale, che ne incornici l’eloquente bellezza?