INUTILIA
Si è notato, ormai da decenni, che alcuni inni della Liturgia Horarum sono stati ritoccati dal riformatore liturgico, obbligando a farfugliare nel canto le zone di intervento, che si fatica a imparare a memoria nella nuova redazione. Classico è il caso del Veni Creator, inno in dimetri giambici attribuito con probabilità a Rabano Mauro († 856). Laddove (II strofa) sino al 1972 si è cantato: Altissimi donum Dei, ora si canta donum Dei altissimi, con fastidioso iato fra Dei e altissimi. E dove si cantava (III strofa) digitus paternae dexterae ora si canta dextrae Dei tu digitus. E nell’ultima strofa (prima era la penultima), ove si canta te utriusque Spiritum, una volta si cantava Teque utriusque Spiritum, con ridondanza di enclitiche e antipatica elisione fra teque e utriusque.
Neppure l’inno mariano Ave maris stella, in tripodia trocaica, di autore ignoto sec. VIII-IX, è rimasto tranquillo. L’ultimo verso infatti non recita più Tribus honor unus ma honor tribus unus, con la civetteria letteraria di accostare i due numerali.
Cos’è capitato? Il riformatore liturgico ha voluto ricondurre il tutto alla “pristina auctoritas patrum”, vale dire al testo originale, reale o presunto che fosse. Si deve sapere infatti che sotto Urbano VIII (1623-1644), a seguito della nota smania umanistico-letteraria di quei secoli, gli inni sono stati sottoposti a ciprie classicheggianti per renderli metricamente meno rubesti. Il guaio è che non ci si è limitati a “sudar dietro al piccioletto verso” – come direbbe Carducci – ma si è infilata dentro nomenclatura paganeggiante, per cui a Gesù veniva attribuito talora il titolo di Giove, per una certa assonanza verbale (Jesus\Jovis). Il patriarca di questa usanza perversa è stato nientemeno che il cristianissimo Dante. Ma lo ha fatto una volta sola (Purgatorio VI 118). Queste intrusioni pagane sono state fatte fuori dal buon senso di Benedetto XIV (1740-1758). Non ci si deve stupire che si fosse giunti a eccessi così sgradevoli. Erano i tempi e la moda. Basti pensare che il cardinale Pietro Bembo (1470-1547) aveva ottenuto licenza dal papa (di cui taccio il nome per rispettarne la memoria) di sostituire gli inni, a suo parere metricamente insopportabili, con le Odi di Orazio.
Che dire dei ritocchi arrecati all’innografia dalla riforma del Vaticano II? Che mi sembra un po’ maniacale per l’eccesso opposto. Non tutte le ciprie letterarie del passato meritavano di essere censurate in nome dell’arcaismo. Quelle che, pur senza alterare sensibilmente il concetto, fluidificavano il verso nella recita e nel canto, potevano essere tollerate. L’erudito ripristino è doveroso in un’edizione critica, ma la liturgia ha altri scopi.
Alberto Albertazzi