“Isis nostrano”?

 
 

Di questi tempi i telegiornali ci propinano immagini orripilanti da furibonda rivoluzione francese, quando la ghigliottina era ben lubrificata e le teste rotolavano via allegramente. Oggi vediamo truci figuri incappucciati che premono una mano sulla testa del malcapitato e con l’altra brandiscono non si capisce bene se una scimitarra o un trinciapolli. Per fortuna ci è risparmiato lo spettacolo dell’esecuzione. L’uomo dai tempi di Caino non smette di essere il più feroce di tutti i mammiferi, di una ferocia ancor più odiosa perché consapevole.

Quando sembrava che la civiltà fosse un dato ormai universalmente acquisito, siamo improvvisamente precipitati nella più cupa barbarie. Non ci si illudeva che fosse estinta la violenza, ma almeno che fosse risparmiata la crudeltà. Invece no e per giunta viene biecamente spettacolarizzata. Il terzo millennio non poteva iniziare in maniera meno allegra.

Mi chiedo però, in modo ancora meno allegro, se c’è grande differenza fra tagliare una o più teste e prendere a bastonate invalidi in case di accoglienza e malmenare bambini in scuole dell’infanzia. Proprio in quelle case che per vocazione istituzionale dovrebbero essere tempio di protezione degli indifesi, viene praticata la più becera brutalità. Questo lo chiamo Isis nostrano, praticato da italiani su italiani. L’Isis – diciamo – classico taglia teste in nome di Allàh e fa stragi sbraitando “Allàh è grande”. L’Isis nostrano ha almeno il pudore di lasciare Dio da parte, forse solo perché da noi non viene più in mente, tanto lo abbiamo marginalizzato nei nostri orizzonti mentali. Aggiungo però, a nostro maggior disdoro, che può darsi che alcune teste siano rotolate via perché i titolari delle medesime sono andati a ficcarsi nei guai da soli. Il “nostro Isis” invece malmena degli infelici e dei bimbi che sono stati affidati a chi avrebbe dovuto aiutarli e proteggerli. Il “nostro Isis” ha dunque l’aggravante del tradimento istituzionale.

Non so quanto sia pertinente questo confronto fra Isis classico e i nostri istituti/lager, ma forse noi, “civilissimi europei” non siamo autorizzati a lanciare la prima pietra.


SPROLOQUI FUNEBRI

Quando tira le cuoia qualche personaggio di spicco al funerale, laico o religioso che sia, talora se ne sentono delle belle. E’ morto di recente Umberto Eco, sul cui feretro sono planati elogi planetari. Non mi vergogno di dire che di lui non ho mai letto niente e forse ho fatto male, ma nessuno è obbligato a leggere qualcosa di tutti. Rispetto la sua scelta di funerale laico, nella quale forse bisogna leggere coerenza di pensiero.

Quando però muoiono i grandi occorre tenere un po’ sotto controllo il microfono, per evitare predicozzi maldestri, più di casa a funerali laici che religiosi, ritualmente più disciplinati anche se talora non mancano scalmane di applausi.

Fatto sta che al funerale di Eco un figuro – non ho capito chi fosse – arraffa il microfono e proclama all’incirca così: «Se Dio deve essere tirato in ballo, allora dico che Dio tollera i credenti ma predilige gli atei!». Non so come faccia a saperlo lui, non essendomi sembrato il confidente di Dio. Probabilmente voleva essere un proclama di ateismo ad effetto. Ma la logica zoppica, perché se Dio predilige vuol dire che esiste. Cartesio diceva “cogito ergo sum” (=penso dunque esisto), che possiamo voltare in questo caso in “diligo ergo sum” (amo dunque esisto). Il prerequisito per fare qualunque cosa è di esserci. Chi non c’è non può fare niente. Ma forse il nostro amico voleva dire che Dio predilige gli atei perché almeno non lo sgonfiano? Se così fosse, avrebbe un miserando concetto di Dio. Salvo che in questo modo non abbia voluto rendere omaggio al defunto di turno, da lui ritenuto ateo. Ma mi mancano riscontri circa un eventuale orientamento religioso di Eco.

Messa da parte questa goffa casistica interpretativa, ciò che voleva dire sembra proprio che sia meglio essere atei che credenti. E’ un punto di vista suo. I credenti in fondo non devono offendersi sapendosi “tollerati” da Dio: li tollera come sono, ma li vorrebbe migliori di come sono. Ma se vogliamo chiamare questa tolleranza divina con il giusto nome, la dobbiamo chiamare amore, che si estende anche agli atei a loro insaputa.