IV domenica del Tempo ordinario
A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Ricorre in questa domenica la festa della presentazione di Gesù al tempio che la Chiesa d’oriente chiama “festa dell’incontro”, una definizione utile per cogliere il significato del luminoso mistero oggi celebrato. L’incontro di cui si parla è duplice: in primo luogo quaranta giorni dopo la sua nascita Gesù entra nel tempio e qui incontra il Dio dei suoi Padri attraverso l’offerta prescritta dalla Legge; nello stesso tempo, come dice il saluto iniziale del sacerdote, egli incontra il suo popolo “che lo attendeva nella fede”. Ancora una volta è evidente il contrasto, così frequente nei Vangeli dell’infanzia, tra la semplicità della narrazione e il significato profondo di quanto sta avvenendo, messo in risalto dalle parole e dagli atteggiamenti degli anziani Simeone e Anna. Da una parte troviamo due giovani sposi, probabilmente ancora immersi nell’atmosfera di stupore e meraviglia per il mistero di quella nascita; due ragazzi modesti che, non potendo permettersi di sacrificare un agnello, offrono una coppia di tortore e due giovani colombi; due genitori poveri, quindi, ma obbedienti alla Legge e ai riti da essa prescritti. Dall’altra parte sono due anziani, Simeone e Anna, distanti per età ma non per fede e, come Maria e Giuseppe, attenti ai moti dello Spirito, alle sue ispirazioni e, proprio per questo motivo, capaci di offrire un ulteriore tassello utile alla comprensione del mistero di questo bambino. Simeone non è un sacerdote; di lui Luca dice che è un “uomo giusto e pio”, avanzato in età ma non condizionato dai limiti della vecchiaia; essa, infatti, spesso rende le persone rigide, fisse nelle loro posizioni, arroccate al bisogno di trattenere la vita, prive di desideri se non della brama di sopravvivere, di prolungare al massimo l’esistenza. Simeone è del tutto diverso: è l’uomo del desiderio e dell’attesa che, nonostante lo scorrere del tempo, aspetta “la consolazione di Israele”, sa conservare nel cuore la speranza e, di conseguenza, è docile all’azione dello Spirito. Il suo recarsi al tempio “mosso dallo Spirito” riflette il movimento interiore dell’anima che aspira all’incontro con il suo Signore, alla realizzazione della promessa. È questo il centro della sua esistenza e, proprio per tale motivo, egli può rivolgere a Dio una preghiera in cui chiede di lasciarlo “andare in pace”. Non ha bisogno, infatti, di trattenere la vita perché ne ha riconosciuto la presenza in quel neonato (cf Gv 1,4): la sua purezza di cuore gli ha permesso di vedere Dio in quel bambino e il suo sguardo penetrante lo rende interprete del mistero del figlio ai genitori stupiti e a coloro che oggi ascoltano le sue parole. Per noi, che stiamo “nelle tenebre e nell’ombra di morte” (Lc 1,79), questo bambino è luce e, di conseguenza, calore, senso, vita, è colui che rischiara e orienta l’esistenza. È gloria, manifestazione della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, ma è anche “segno di contraddizione”, spada che separa quanto è di Dio da ciò che invece appartiene al mondo degli uomini. Simeone è troppo anziano e, di conseguenza, troppo realista per nutrire un’immagine idilliaca della salvezza; la sua richiesta di poter andare manifesta però un’intima certezza: la salvezza è giunta; sta ora a noi accoglierla come luce che manifesta la presenza di Dio in mezzo al suo popolo e rende visibili le contraddizioni nostre e del mondo.