La solennità della Santa Famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Il Natale, come tutte le solennità che l’anno liturgico ci invita a celebrare, è festa della vita, la vita piena, quella che abita in Dio e che egli ha voluto condividere con noi fino al punto di donarci suo Figlio affinché, come dice la colletta di oggi, “divenisse membro dell’umana famiglia”, vale a dire uno di noi, “in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (Eb 4,15). La stessa preghiera prosegue invitandoci a ravvivare in noi “la venerazione per il dono e il mistero della vita”. Come tenere viva dentro di noi la consapevolezza di questa grazia che ci è stato offerta e a cui ci è dato di partecipare diventando a nostra volta generativi? Fermiamoci a osservare i personaggi che il Vangelo di Luca
oggi ci presenta. Maria e Giuseppe portano il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore: un gesto che non può essere letto come mero adempimento delle norme prescritte dalla Legge; essi, infatti, sono profondamente consapevoli della straordinarietà di questa nascita per non sentire che quel bambino appartiene a Dio e non a loro, anche se il Padre, quello vero, quello dei cieli, è stato così generoso da voler condividere con loro – come con ogni altro genitore, ci dice la colletta – la sua fecondità. Fecondità che non consiste prima di tutto nel dargli la vita fisica; Giuseppe, infatti, non è padre nella carne, ma il bambino cresce e si fortifica, come scrive Luca alla fine di questa
pericope, grazie anche al suo apporto e non solo per le cure di Maria. Entrambi, infatti, contribuiscono, come accade per ogni coppia di genitori, a fare di questo bambino una persona vera, con un’identità ben precisa, capace di relazione con gli altri e con Dio. Entrambi guardano a lui con meraviglia e stupore non solo a causa della singolarità di questa nascita ma soprattutto perché, come ogni padre e ogni madre, non possono limitarsi a vedere nel figlio il frutto del loro amore senza percepire qualcosa che li trascende: la presenza di Dio all’opera in ogni creatura. In questo bambino, però, c’è qualcosa in più e lo Spirito Santo muove l’anziano Simeone affinché aiuti la madre, a cui si rivolge direttamente, ma anche il padre che è lì presente ad ampliare la percezione del mistero di questo figlio. Attraverso lo sguardo di Simeone ora anche i loro occhi possono contemplare in quel bambino colui che è venuto per portare la salvezza agli uomini. Una salvezza non riservata a pochi ma che viene da Dio e manifesta il suo amore per tutte le genti. Il neonato che Maria porta tra le braccia è Colui che compie ogni desiderio dell’anziano sacerdote divenuto profeta. Essi si stupiscono nell’udire le parole che lo descrivono come luce e salvezza, ma forse si meravigliano ancora di più nello scoprire che basta la sua presenza per dare compimento alla vita di Simeone: egli, infatti, non ha più nulla da attendere, da aspettare, da desiderare e la morte non gli appare come un nemico che tronca e spezza lo scorrere dei suoi giorni, ma un “andare in pace” secondo la parola di Dio. Mosso dallo Spirito, questo “uomo giusto e pio” supera così la paura della morte, quasi ad anticipare quanto il bambino, divenuto uomo, compirà in pienezza: la sconfitta totale, grazie al mistero della sua croce e risurrezione, di ogni nemico dell’uomo in una misura talmente piena da far esclamare a Paolo che quello più pericoloso, la morte, “è stata inghiottita nella vittoria” (1Cor 15,54).