L’angolo di Don Alberto VEDOVE (e VEDOVI)
Le vedove nella Bibbia sono personaggi di spicco. Ve ne sono alcune in ruolo di protagonista, come Rut e Giuditta. Altre sono comparse o poco più, come la vedova di Sarepta (1 Re 17,18-24) e la vedova di Nain (Lc 7,11-17). E se ne parla cumulativamente, come condizione sociale congiunta con l’orfano, particolarmente indifesa e facile preda di chi aveva gli artigli lunghi (cfr Ger 22,3; Zc 7,10). Non essendoci ancora la pensione di reversibilità, le vedove con i loro eventuali figli di conseguenza orfani di padre, erano costrette a tirare la cinghia arrabattandosi a campare.
San Giuseppe non sappiamo che fine abbia fatto. E’ certamente morto, ma resta ignoto se sia morto prima che Maria fosse assunta in cielo. Quindi un’eventuale vedovanza della Madre di Dio non è documentabile. Accontentiamoci di saperla vergine e madre, che suona meglio di vergine e vedova.
Non dovevano essere rare le vedove in epoca biblica, come non lo sono oggi, se san Paolo si prende la briga di redigere una specie di “statuto di vedovanza” che le costituiva in corporazione ecclesiale. Lo troviamo nella prima lettera a Timoteo (1 Tim 5,3-16), di cui riporto il passaggio in questione:
Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia conosciuta per le sue opere buone … (v. 9).
Occorre dunque un’età che le tolga il sospetto di “vedova allegra” e che sia di meritevole condotta. Interessante il fatto che Paolo già avesse istituito un registro delle vedove che le costituiva in corporazione ecclesiale. Chissà perché solo le vedove e non le maritate, e prima ancora delle non vedove e non maritate (che successivamente saranno arruolate nell’ordo virginum [=ordine delle vergini]). San Paolo non ce lo dice.
L’attenzione paolina è concentrata solo sulle vedove e non sui vedovi che pure esistevano ed esistono. Eppure la vedova gode di maggiore autonomia casalinga, essendo in grado, per attitudine muliebre, di fare andare avanti la casa. In queste faccende il vedovo, salve eccezioni, è certamente più imbranato. La vedova dunque avrebbe avuto meno bisogno di soccorso.
Il fatto che l’Apostolo delle genti si riferisca a un catalogo delle vedove, lascia supporre anche una certa classificazione delle stesse, che mi sono permesso di elaborare sulla base di una ormai lunga esperienza pastorale.
Tra i vari collaboratori parrocchiali le vedove non mancano. Onde il pastore non può non guardare con gratitudine a questo benemerito ceto che oggi, a dispetto delle direttive paoline, non è più ufficializzato su un registro apposito. Negli odierni archivi parrocchiali non c’è un registro delle vedove, insieme a quello di battesimo, matrimonio (oggi un po’ impolverato …) e di morte, più che mai in funzione per l’inassopita attività di questa “sora nostra corporale” (san Francesco). Si possono rintracciare vedove e vedovi scartabellando il registro di morte. Ma ritorniamo alla classificazione che mi sono fatto.
E’ mia usanza classificare le vedove in tre categorie: 1. afflitte, 2. aspiranti, 3. soddisfatte. Cerco ora di connotarle, quantunque i loro tratti si possano facilmente intuire dalla loro stessa denominazione. Dicesi afflitta la vedova che non sa darsi pace, neppure dopo anni di vedovanza: le si arrossano gli occhi e si spezza la voce quando parla del compianto estinto. Una vedova cronicamente afflitta mi piagnucolò: «Spero almeno di rivederlo di là». Le risposi: «Signora, le auguro di vedere di meglio!». La risposta non è stata particolarmente gentile, ma l’azione consolatoria non è tra le mie prerogative. Però c’era un fondo teologico: il modo migliore per rendere tapina la vita eterna è di pensarla come un riciclaggio della vita presente, nel quale si ripristinano al meglio i nostri rapporti terreni. La vita eterna ha senso solo se mirata su Dio, diversamente accontentiamoci di questa.
L’aspirante vedova è quella che non è ancora tale e non vede l’ora di divenire tale. All’origine c’è un matrimonio non perfettamente riuscito, tollerato e gestito alla bell’e meglio, anche se non necessariamente cornuto (sit licentia verbo): situazione che si verifica quando il marito è catastroficamente noioso, se non peggio. Ricordo in una precedente parrocchia (si tenga presente che con le quattro attuali ne ho totalizzate undici) un’aspirante vedova che pregustava il lieto evento ormai a distanza molto ravvicinata e faceva i suoi progetti di vedova modicamente afflitta, senza particolari rimpianti per gli anni trascorsi in sopportato matrimonio. A vedovanza acquisita faceva, con colleghe esse pure facilmente consolate, divertiti confronti fra il prima e il dopo. Insomma non tutti i mariti lasciano “eredità d’affetti”, come direbbe il Foscolo, non vedovo ma poeticamente esperto di tombe e cimiteri.
La vedova soddisfatta in pratica è già stata descritta. E’ quella che, pur senza darsi alla pazza gioia, vive serenamente la sua vedovanza in una ritrovata libertà, finché non giunge anche lei al traguardo (non si resta vedovi in eterno). Fa celebrare la Messa anniversaria di suffragio, va sporadicamente al cimitero, e magari tiene in camera la fotografia del più o meno compianto estinto e nulla più. Senza però ardere dal desiderio di poterlo incontrare nell’altra vita.
Non ho elementi per tracciare la meno connotata categoria dei vedovi. Salvi casi eccezionali non credo che si possa configurare una categoria di aspiranti vedovi e tanto meno di vedovi soddisfatti. Qualche vedovo afflitto l’ho conosciuto. Ma il vedovo piagnucola meno della vedova, non perché gli si prosciughino le lacrime ma perché in genere fa più presto a correrle dietro nella tomba.
La vedovanza maschile nella Bibbia è difficilmente ricostruibile, dato il regime di poligamia simultanea dell’Antico Testamento. Il maschio poteva perdere una moglie ma gliene rimanevano altre di riserva, come è capitato a Giacobbe che, tra mogli ed equiparate, ne ebbe nientemeno che quattro: Lia, Rachele, Bila e Zilpa (Gen 35,22-26). Era in anticipo dunque su quella che oggi si chiama “famiglia allargata”. Con la differenza però che oggi l’allargamento è bilaterale, perché la pluralità di compagni – usiamo questo termine che lascia imprecisato il tipo di rapporto – è praticata pure dalla donna. Quindi si configura il caso di “vedovanze incrociate”.
Se mi fermassi qui darei una spiacevole impressione: ossia che per me esistano solo queste tre tipologie di vedove (afflitte, aspirati e soddisfatte) sulle quali in fin dei conti ho barzellettato, e forse poco delicatamente. San Paolo – da lui siamo partiti – non teneva in conto siffatte classifiche, ma vedeva nella vedovanza altre possibilità compensative del matrimonio venuto a cessare.
Lo cito ancora:
Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speranza in Dio e si consacra alla preghiera giorno e notte (1 Tim 5,5).
Dite se è poco.
Paolo[1] riconosce alla vedovanza una dimensione innovativa: l’accettazione della condizione come regime di vita consacrato a Dio, nella speranza e nella preghiera assidua (cfr 1 Tes 5,17). Quando buona parte delle faccende di casa non urge più, è il momento di riconoscere a Dio il primato non solo intenzionale ma reale. La priorità intenzionale è enunciata nella preghiera mattutina del Ti adoro, al passaggio «ti offro tutte le azioni della giornata». Le azioni, talune in particolare, richiamano l’attenzione su di sé per non combinare pasticci. A Dio sono orientate radicalmente nell’accennata intenzione mattutina. Quando invece, per mutato regime di vita, il nostro dimenarci quotidiano in buona parte si placa, ecco che ci si offre la possibilità di agire in diretto riferimento a Dio, soprattutto nella preghiera e nelle opere buone. Il fatto che Paolo riconosca alle vedove questa possibilità è da prendersi come atto di galanteria spirituale verso di loro. E di vedove che prendono sul serio questo suggerimento paolino, grazie a Dio, non ne mancano.
Morale della favola: siccome è raro che si muoia tutti e due insieme, la vedovanza deve essere messa in conto e accettata, e in larga percentuale mi pare che lo sia.
Mons. Alberto Albertazzi
[1] Paolo era sposato? Probabilmente sì, come era nell’usanza dei tempi. Una eventuale “signora Paolo” non compare mai. In 1 Cor 9,5 abbiamo un equivoco accenno autobiografico interpretabile sia nel senso che fosse sposato sia nel senso che fosse signorino.