Miravidi
a cura di Mons. Alberto Albertazzi
alberipazzi@gmail.com
Miravidi non è una parola magica. E’ il nome di un monte (m. 3066) in Val d’Aosta, sul quale non sono mai salito. Sorge in una smagliante posizione montana: da una parte ha il Monte Bianco; dall’altra, un po’ più lontano, il Gran Paradiso. E’ dunque incorniciato dal grandioso. Il suo nome, tagliato a metà, mira-vidi, produce due parole latine che vogliono dire: “Ho visto cose meravigliose”. Mi piace immaginare che questo nome, dotto e appropriato, gli sia stato omaggiato da chi vi è salito la prima volta, trovandosi attorniato dal “coro festante delle grandi Alpi” (Carducci). Un panorama così mozza-fiato gli ha suggerito quel nome. Siamo un po’ nella logica del “non andrei mai via di qui”, come si è soliti dire dinanzi a spettacoli stupefacenti, che invitano alla permanenza. Non so se questa sia la storia vera, ma mi piace immaginarla così!
Fatta questa premessa, mi sposto sui salmi alla ricerca di altre residenze, probabilmente al di fuori dello spazio, la cui bellezza è impareggiabile. Una di queste residenze brilla nel salmo 26 che già parte sfavillando:
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
Inizio gioioso e rassicurante, tipico di chi si sente in buone mani. E poi, il verso 4, esprime un’aspirazione residenziale:
Una cosa sola ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e ammirare il suo santuario.
Teniamo presente che i salmi essendo composizioni dell’Antico Testamento, praticano una teologia poco levigata. Il salmista per casa del Signore intende il tempio di Gerusalemme, ove il Signore era ritenuto residente più che altrove. Non si possedeva ancora il concetto filosofico del Dio che è tutto dappertutto. Soltanto il sapiente re Salomone eleva dubbi circa la residenza preferenziale di Dio nel tempio più che in altre località turistiche. Improvvisatosi sommo sacerdote, nella dedicazione del tempio da lui costruito (circa anno 960 aC) pronuncia una magnanima preghiera nella quale si lascia sfuggire questa prudente perplessità:
Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito (1 Re 8,27).
L’imprevedibile, antesignano illuminismo di re Salomone! Il monarca prende in anticipo le distanze dalla sconfinata letizia del nostro salmista, che gli esplode in cuore al solo pensiero di contemplare la bellezza del Signore con familiarità casalinga.
La richiesta del salmista è alquanto pretenziosa: non si accontenta infatti di un occhieggiata alla Cantico dei Cantici (2,9), o come quella che talora si manda al sole e subito bisogna abbassare lo sguardo. Vuole addirittura abitare, ossia fissare residenza, nella casa del Signore tutti i giorni della sua vita per contemplarne la bellezza e ammirarne il santuario. Sembrano per lui quasi due bellezze alla pari: contemplare e ammirare non differiscono molto, neppure nell’originale ebraico che peraltro, come l’italiano, differenzia i verbi. Il salmista, torno a dire, è uomo dell’Antico Testamento: talmente abituato a idealizzare il tempio da quasi identificarlo con Chi a parer suo vi abita. In tono maggiore è un po’ quello che capita quando si identifica la chiesa-edificio con la chiesa-popolo-di-Dio. Non possiamo comunque non rimanere incantati da questo slancio contemplativo che costituisce il punto sommitale del salmo intero.
Dà manforte a questo entusiasmo teologale il salmo 83,11:
Sì, è meglio un giorno nei tuoi [di Dio] atri
che mille nella mia casa.1
Questo salmo non chiede nulla, si limita a dichiarare, a constatare non senza una puntina di timidezza paragonato al precedente: quello infatti chiedeva di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della sua vita; questo invece riconosce la deliziosa superiorità di un giorno solo rispetto a mille trascorsi nella migliore residenza di questo mondo. Il divino trascende sempre l’umano e la bellezza di Dio subissa ogni bellezza umana.
Un’esperienza indimenticabile di questa suprema fruizione estetica l’ha fatta san Pietro nella Trasfigurazione, che non ha più dimenticato2, allorché esplode in un impeto di entusiasmo «Rabbì, è bello per noi essere qui» (Mc 9, 5). E così la bellezza dello “stare” passa dall’Antico al Nuovo Testamento che spalanca orizzonti ben più ampi. Si sbarazza infatti del tempio e dei suoi atri, che per Dio andavano un po’ strettini, come già riconosciuto da Salomone, e proietta la contemplazione del divino nella celeste Gerusalemme, i cui bagliori sono anticipati nell’Apocalisse. In questa dardeggiante panoramica giovannea sentiamo lo sforzo letterario di trasmettere l’idea di un rinnovamento totale, che ha lo sconfinato come unità di misura spaziale:
E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una voce potente, che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il loro Dio con loro, il loro Dio (Ap 21,1-3).
Resta contemplazione pura. Ogni intrusione umana ha solo l’effetto di rovinare il tutto, come ha fatto Pietro nella Trasfigurazione, con la sua goffa iniziativa di fare tre tende per gli augusti interlocutori: lo sfavillante scenario scompare. Quando l’uomo si pretende protagonista nelle cose di Dio, massacra tutto come un elefante nella cristalliera. Il salmo 26 da cui siamo partiti si accontenta di contemplare la bellezza di Dio senza nulla proporre. Raffinatissima discrezione: galateo orante che deve osservare chi è rapito alla suprema bellezza.
Scendiamo ora sulla dura e rude crosta terrestre, nella quale siamo tanto impegolati, pur sapendo di non avere quaggiù residenza permanente (cfr Ebr 13,14). La Pasqua appena passata, al pari di tutte le precedenti e future, ci invita a cercare le cose di lassù, non quelle della terra (cfr Col 3,1-2), con l’eroica consapevolezza di san Paolo ai Romani: «Ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi» (Rom 8,19).
L’occhio non è mai sazio di vedere (cfr Qo 1,8) e resta inappagato finché non plana su Dio. Il traguardo del visus lo enuncia san Giovanni nella sua prima lettera:
Quando Egli [Dio] si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1 Gv 3,2).
Altro che Miravidi!
Pare che la Chiesa stessa, così impegnata a voltolarsi nel sociale, abbia perso di vista questa prospettiva ultraterrena. Non mi spiacerebbe che la rispolverasse, dato che la sua missione è l’annuncio del Regno di Dio.
1 L’originale ebraico si limita a dire “E’ meglio un giorno nei tuoi atri che mille”, e non precisa dove. Forse per questa indeterminatezza era meglio lasciare “che mille altrove” come in CEI 1974.
2 La ricorda infatti nella sua (se è sua) tardiva seconda lettera (2 Pt 1,18).