Morte e dintorni

 
 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi

alberipazzi@gmail.com

Questo titolo poco allegro è intonato con l’inizio di questo mese. Dopo i Santi infatti, sfavillanti di luce trionfale, il nostro pensiero si incupisce sulla morte e si “melanconizza” (1) sui morti. Ma prima di cominciare a parlarne è opportuno stazionare un po’ sulla terminologia.

Credo che poche realtà siano tra loro contrarie come vita e morte e loro derivati. Mi sembra che il linguaggio mortuario sia più assortito di quello vitale. Mi vengono in mente mortale, morituro, moribondo, morente, morto, mortorio. Mentre invece sul versante della vita ci accontentiamo di vivo, vitale e vivente. Il vocabolario della lingua italiana non dà né “vivituro” né “vivibondo” né “vivorio”. Possiamo però aggiungere mortificato e vivificato che si controbilanciano, connotando in prevalenza stati d’animo. C’è di contro ravvivato e non “rammortato”; vivace ma non “mortace”. Di mortaio e vivaio non è neppure il caso di parlare perché ci portano fuori campo (santo). Ma a conti fatti si direbbe che la nostra lingua sia più appassionata alla morte che alla vita.

Ciò sembra accadere pure tra i viventi della specie umana, i quali sono più appassionati ai funerali che ai battesimi: i funerali infatti sono di richiamo moltitudinista, mentre i battesimi si si risolvono in festicciole familiari, comunque combinata la famiglia nelle fantasiose tipologie dell’anagrafe post-moderna.

Ma il bello arriva adesso. Pur essendo vita e morte fra loro assolutamente incompatibili, perché nella stessa persona se c’è l’una non c’è l’altra, vivente e mortale viceversa sono perfettamente sinonimi, con vittoria di mortale su vivente: infatti posso dire che un vivo sia mortale, ma non posso dire che un morto sia vitale. Accanto a mortale possiamo mettere morituro, più o meno di pari significato. Le differenze si colgono solo su sottilissime sfumature. Affermata la perfetta equivalenza biologica fra vivente e mortale, mi pare tuttavia di cogliere una differenza psicologica o qualcosa di simile in morituro, perché il vivente non necessariamente sa di essere mortale. Non so infatti se l’oca sia consapevole che a natale può finire in padella (2), mentre chi si riconosce temporizzato, ossia l’uomo, forse non si pensa in padella essendo ormai superata l’antropofagia, ma è comunque consapevole che o prima o poi andrà a finire in apposito contenitore funebre: quindi si sa morituro. In morituro c’è dunque consapevolezza di morte, non necessariamente avvertita in mortale. In morituro si coglie pure qualcosa di eroico, assente nell’apatico mortale, se i gladiatori romani, quando stavano per sbudellarsi a sollazzo di patrizi e plebei, dicevano: “Ave, Cesare, i morituri ti salutano” (3).

Abbiamo poi verbali marce di avvicinamento camminanti con le scarpe di moribondo e morente, che diventano ora oggetto di accurata riflessione. Mi pare che la differenza fra i due sia minima. Il moribondo difficilmente fa retromarcia, anche se talora capita. Morente invece mi sembra che racchiuda il sé il coma irreversibile e cominci ad attivarsi su di lui il “pompiere funebre”. Ma facciamo un passo indietro: quando l’interessato è promosso alla categoria di moribondo, è bene chiamare il prete per il Viatico, se in vita gli è interessato almeno qualcosa di Dio e della Chiesa. Non dimentichiamolo: è la più importante di tutte le comunioni. Abbiamo in tal modo acquisito due opportune connessioni fra situazione esistenziale e ingaggio: per il moribondo si ingaggia il prete, per il morente si ingaggia il pompiere funebre (4).

Mettiamoci ora alla scuola della liturgia che in fatto di morte e antefatti ha da dirci non poco. Innanzitutto conosciamo la sua dovizie di testi per i funerali: preghiere, monizioni, salmi, letture. Il problema è quello di trovare i testi che meglio si attagliano al regime di vita, più o meno cristiano, tenuto dal defunto di turno. Ma nella liturgia troviamo attenzione pure ai preliminari. Partiamo da lontano. Nel Messale c’è infatti una Messa “per gli infermi”: infermi in genere, comprensiva di tutti gli ospedali e case di cura, nonché di ammalati casalinghi. E’ vero che non tutte le malattie sono per la morte – lo dice anche Gesù (cfr Gv 11,4) – ma, per bene che vada, è sempre un indebolimento di vitalità, quindi un’accentuazione di mortalità. C’è poi anche una Messa per i moribondi, utilizzabile senza specifico destinatario. Quanti moribondi ci sono in una giornata su questo pianeta?! Pregare per loro è atto di carità cristiana. La preghiera di questa Messa è realistica, disillusa e mirata:

[O Dio] … veglia sul nostro fratello Morimondo (5) nelle sofferenze dell’agonia, perché unito alla passione del tuo Figlio e asperso dal suo sangue redentore, possa presentarsi con fiducia davanti al tuo volto.

Non sentiamo la richiesta pretenziosa e poco rassegnata del miracolo. Si chiede soltanto una soddisfacente successione dei fatti, ossia che il “tirante le cuoia” di turno possa presentarsi in condizioni decenti al tribunale di Dio: comparizione da non dimenticare. Per questo il Messale, nella sua concreta lungimiranza, prevede anche una messa “per chiedere la grazia di una buona morte”, tramite «un sereno passaggio alla vita eterna».

Ma c’è anche una preghiera “per coloro che moriranno nella giornata”, i quali sono tanto meno numerosi quanto più passano le ore della medesima. Vi si coglie una doppia bellezza: l’avvertenza che quello della morte è il momento più delicato e decisivo della vita. Inoltre è una preghiera a destinazione ignota, in quanto da quell’altare non si può sapere chi morirà in giornata, lasciando a Dio l’incarico di amministrarne i frutti. Eccone un passo:

[O Dio]… accogli la nostra preghiera per i fratelli che moriranno in questo giorno; tu che li hai redenti con il sangue del tuo Figlio, concedi loro di lasciare questo mondo liberi da ogni peccato e di ottenere dalla tua misericordia di Padre il riposo senza fine.

Splendida espressione “il riposo senza fine”, meno metafisica di “eterno riposo”, peraltro a noi più familiare. Meglio non poteva essere connotato lo sfaccendamento paradisiaco, fatto solo di contemplazione che appaga e non affatica.

E ora un pensierino sugli antefatti della morte, che ordinariamente sono la malattia e la vecchiaia. Non posso tacere quella che oserei chiamare la “frode terapeutica”, ossia la prolungata nutrizione del degente per vie innaturali, solo per ritardarne la morte. Alcuni antefatti poi sono lunghissimi, soprattutto con l’odierno allungarsi delle aspettative di vita. Pensiamo all’invecchiamento irreversibile e desolato nelle strutture di accoglienza senile, anche in quelle ove è più apprezzabile lo sforzo del personale nel vitalizzarne gli ospiti.

Se bene osservo l’invecchiamento umano è più pietoso di quello di altri mammiferi. Un cane e un gatto riescono sempre comunque a camminare con quattro zampe. Ce la fa anche l’uomo, ma sovente con l’aiuto di due “zampe a rotelle”! Per non parlare della progressiva evaporazione del cervello, i cui sintomi sono precoci e beffardi, specialmente quando si va a caccia di nomi che ci frullavano in mente fino a un attimo prima. Devo dire che lo sbiadimento cerebrale (di cui ho sintomi galoppanti), per adesso mi diverte e mi dissocio da Leopardi che si sperava alla larga dalla “detestata soglia della vecchiezza” (6). Anche “la discesa terribile degli anni” (Gozzano) ha il suo fascino, che ci invita a sorridere pietosamente di noi stessi, con il mesto realismo del salmo 89,5-6:

Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo». [Perché l’uomo è] come l’erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca.

Ecco perché morire si dice anche “rimanere secchi”!

Spero di avere accontentato quanti per novembre mi chiedevano un foglio da morto.

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1 Ormai è risaputo che mi piace inventare le parole.
2 Cfr G. GOZZANO, La differenza.
3 Ave Caesar! Morituri te salutant!
4 Ormai lo scrivo senza virgolette perché sta divenendo gergale.
5 E’ il nome di un’abbazia nei pressi di Milano, qui tirata in ballo per affinità fonetica col nostro tema.
6 Il passero solitario.

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1 Ormai è risaputo che mi piace inventare le parole.
2 Cfr G. GOZZANO, La differenza.
3 Ave Caesar! Morituri te salutant!
4 Ormai lo scrivo senza virgolette perché sta divenendo gergale.
5 E’ il nome di un’abbazia nei pressi di Milano, qui tirata in ballo per affinità fonetica col nostro tema.
6 Il passero solitario.