Natale del Signore 2016

 
 

–  Il Verbo si è fatto carne…  –

 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi –

 

La liturgia del Natale è alquanto ricca e articolata. Prevede infatti quattro appuntamenti eucaristici, già documentati nelle fonti classiche della liturgia romana: messa di vigilia, messa della notte, messa dell’aurora e messa del giorno. Ciascuna possiede un proprio formulario autonomo caratterizzato  dalla pagina evangelica. Fra le quattro la più importante è quella del giorno, blasonata del prologo del vangelo di Giovanni, «l’alto preconio che grida l’arcano / di qui là giù sovra ogni altro bando» (Dante, Par XXVI 44). Si dà molta enfasi, più o meno folkloristica, alla messa della notte per l’orario inconsueto, ma la tradizione liturgica, soprattutto papale, ha sempre privilegiato la messa del giorno.
Nella messa di vigilia il vangelo scroscia una sfilza di nomi, assai diversi dai nostrani Cichin e Pinot: è la genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo. A Matteo preme affermare la schietta origine ebraica del suo Protagonista. Poi, pagato questo debito letterario, si intrattiene a spiegare com’è nato Gesù, ricuperando il vangelo della quarta domenica di avvento.
Nella messa della notte si devia su Luca per ascoltare la nascita di Gesù Cristo a Betlemme, in povertà assoluta. Non c’era posto per loro all’albergo. Ma non enfatizziamo pateticamente questa povertà, forse più apparente che reale. Luca, infatti, inquadra la nascita del Bimbo nell’orizzonte del neonato impero romano, tirando in ballo nientemeno che Cesare Augusto. Verso la “mangiatoia-culla” si mobilitano i pastori, passandosi la voce. Ma non soltanto loro: in cielo si sente uno svolazzare di augusti pennuti (angeli), che intonano per la prima volta l’inno «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». Il vangelo della notte non suggerisce dunque una natività strappalacrime, per la rusticana sala-parto, ma la nobilita da subito con il coro festante degli angeli, che cominciano a far intuire Chi è nato.
Le messa dell’aurora è la più intima fra le quattro, oserei persino definirla “carina”. Ancora nel vangelo sentiamo l’affrettarsi dei pastori simpaticamente vocianti, cui fa da contrappunto l’ermo silenzio di Maria che, «da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Non si smentisce. Al molto parlare preferisce il molto riflettere. Questa eleganza mariana viene ribadita dopo il ritrovamento di Gesù nel tempio (Lc 2,51).
E arriviamo alla messa del giorno, che definisco persino grandiosa. Vi campeggia il vertiginoso prologo del vangelo di Giovanni che fa assurgere lo scrittore a dignità dantesca, tanto da poter applicare a lui ciò che il «ghibellin fuggiasco» dice di Omero (o Virgilio?) definendolo «quel segnor dell’altissimo canto / che sopra gli altri come aquila vola» (Inf IV  95-96). Questa incoronazione letteraria si attaglia perfettamente, perché nell’iconografia corrente Giovanni figura sotto simbolo aquilino. Anche se la liturgia bizantina legge a Pasqua il prologo in questione, mi sembra più pertinente la collocazione natalizia, per l’abissale sprofondamento del versetto 14: il Verbo, all’inizio volteggiante presso Dio, si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi. In queste poche parole il mistero del Natale è racchiuso in un’ardita sintesi, che lo definisce perfettamente.
È curioso notare come predetta liturgia effettui una permuta concettuale fra il Natale e la Pasqua, arrivando a leggere nel martirologio il 24 dicembre: cras ortus Domini nostri Iesu Christi secundum carnem: festum Paschae (domani Natale di nostro Signore Gesù Cristo secondo la carne: festa di Pasqua), raccogliendo il risultato di una polemica a distanza fra sant’Agostino (+ 430) e san Leone Magno (+ 461). Il primo sosteneva che la Pasqua si celebrasse in mysterio e il Natale in memoria tantum. Il grande pontefice, invece, nei suoi sermoni sul Natale anche a questa festa garantisce lo spessore del mysterium, ponendolo quindi a pari livello della Pasqua.

E sembra che abbia avuto ragione lui.
Lasciamo perdere il raffinato contenzioso e torniamo al prologo del Vangelo di Giovanni. Fa bene la liturgia latina (la nostra) a leggerlo a Natale, per controbilanciare i toni intimistici e patetici che la devozione ha strizzato, non senza amabile forzatura, dai vangeli di Matteo e soprattutto di Luca. Si ricorda così al popolo cristiano che il Pupo che viene «in una grotta al freddo e al gelo» (come se Betlemme fosse in Siberia) in realtà scende dalle stelle, intese come divino eufemismo.