Natale e dintorni

 
 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi

alberipazzi@gmail.com

Nella nascita non c’è nulla di eccezionale. Eccezionali possono se mai essere le circostanze, come è capitato a Gesù. Ma ogni vivente, per essere tale, occorre che sia nato. Parimenti non c’è nulla di straordinario nella morte. Lo straordinario si verifica quando un morto dice: «Sono stufo di rimanere morto e mi viene voglia di risorgere».

Parlando ora seriamente, possiamo dire che la pasqua sia più straordinaria del natale (1). La Chiesa se n’è resa conto immediatamente e ha cominciato da subito a celebrare la pasqua: prima a ritmo settimanale, la domenica, il cui nome compare per la prima volta nell’Apocalisse di Giovanni (1,10). Successivamente, a partire dall’anno 130 circa, comincia a emergere una domenica fra le cinquantadue, che si configura come pasqua annuale: quella che noi siamo soliti appunto chiamare pasqua, ricorrente a data variabile in genere nel mese di aprile.

Il riferimento pasquale diviene così dominante che tutte le feste, natale compreso, non sono altro che una “carrozzeria liturgica” sull’evento pasquale. Ne è prova la stessa celebrazione eucaristica, che non esita a dire nella messa della notte di natale: «Egli, offrendosi liberamente alla sua passione, prese il pane ecc. ecc». Sembra una stonatura liturgica: il Pupo è appena nato e si pensa già alla sua morte! Ci si mette in concorrenza con Erode! Ma è una stonatura apparente, perché la morte di Gesù in tutte le messe viene ricordata in quanto preludio alla risurrezione.

Un libro liturgico bizantino (2) il 24 dicembre recita: Cras ortus Domini Nostri Iesu Christi secundum carnem: festum Paschae (= domani nascita di Nostro Signore Gesù Cristo secondo la carne: festa di Pasqua). E la stessa liturgia bizantina il giorno di pasqua legge il prologo del Vangelo di Giovanni, -comprensivo del versetto «… e il Verbo si fece carne …» (1,14) – che le liturgie occidentali leggono il giorno di natale. Chi ha dato una spinta verso la “pasqualizzazione” del Natale, che peraltro già traspare in filigrana nei vangeli dell’infanzia (Mt e Lc 1-2), è stato il papa san Leone Magno (440-461), mettendosi in polemica a distanza con sant’Agostino († 430).

Ma lasciamo stare ora gli amplessi liturgici fra natale e pasqua e rimaniamo sul natale. E’ straordinaria, persino affascinante, la suprema semplicità narrativa dell’evangelista Matteo che menziona solo l’essenziale: Maria, Giuseppe, Gesù, il luogo di nascita e subito dopo l’arrivo dei Magi. Un po’ più generoso è Luca che mobilita angeli e pastori. Eppure a dispetto dell’essenzialità narrativa degli evangelisti, il natale è diventato un carrozzone di iniziative pleonastiche e frenetiche, che non fanno altro che sfalsare il vero significato del vero natale, mettendo nel dimenticatoio Chi il 25 dicembre compie gli anni. Così il natale, da “santo”, diventa insulso.

1. VENIRE ALLA LUCE

La ricorrente espressione “venire alla luce” è molto suggestiva per indicare la nascita. La traduzione corrente migliora il testo greco del Vangelo che utilizza lo scontato verbo ticto corrispondente all’altrettanto scontato “generare”. In italiano Maria non generò, ma “diede alla luce” (traduzione CEI 2008). La nascita è dunque l’uscita dal tranquillo buio uterino alla luce del sole: che scoperta! C’è in questo modo di dire un senso di luminosa sorpresa. Ma siamo sicuri che il “buio uterino” sia così tranquillo? Da quando la scienza ha sorpassato la natura, nei confronti di «questa bella famiglia d’erba e d’animali» (Foscolo) è nata una inopinata diffidenza.

E allora la tranquillità uterina è turbata e disturbata da introspezioni clinicosanitarie, da accertamenti, da controlli: come se la natura non fosse più capace di fare il suo mestiere. La sala-parto ove nacque Gesù non avrebbe di certo superato gli odierni (maniacali) scrupoli igienico-clinici, ma per fortuna di madre e figlio tutto è andato per il meglio. Se è vero che Gesù è nato “in una grotta al freddo e al gelo”, san Giuseppe nell’imminenza dell’evento si conforta dicendo: «Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue» (Gozzano). Frattanto «Maria già trascolora divinamente affranta» (ancora Gozzano).

Il Bimbo viene alla luce ed è deposto in una mangiatoia. L’ambiente è rusticano, bucolico, ma non vi è nulla di spaventoso. Poi di che cosa poteva spaventarsi un bimbo ancora ignaro di paura e di coraggio? Una delle bellezze del presepio è che ci rappresenta una natività umana incorniciata dalla natura: un quadro naturale in una cornice altrettanto naturale. Se gli odierni neonati avessero da subito la sensazione del panico, vedendosi circondati da medici imbavagliati e da tutte le diavolerie e macchinari delle odierne sale-parto, morirebbero sul colpo di spavento!

2. LE CANTORIE

A natale fioccano profferte liturgiche di cantorie, che intendono “allietare” la messa della notte. Dobbiamo mettere in guardia contro facili equivoci. Che senso ha il canto liturgico? Sant’Agostino suggerisce la risposta: qui bene cantat bis orat (= il bel canto raddoppia la preghiera) (3). Ne discende che il canto liturgico si deve intendere come qualificata preghiera. Ben venga dunque la cantoria se si auto-propone con queste intenzioni schiette e mirate, che tuttavia richiedono un entroterra, ossia: 1.che i cantori vivano il loro canto come espressione di fede e non solo come decorazione vocale; 2. che i cantori abbiano consuetudine con la messa domenicale e non vi partecipino soltanto quando è richiesta la loro prestazione canora; 3. che alla fine non raccolgano applausi; ma questo non dipende da loro, bensì dall’intelligenza di fede dell’assemblea. Quando l’umano sorpassa il divino la liturgia è mortificata (4). La più marchiana assenza di tutti questi requisiti si verifica allorquando la cantoria si ritira in sacrestia durante la predica! Lo dico perché l’ho visto. E’ la prova più lampante che quelle ugole sono lì soltanto per la loro prestazione canora, fregandosene altamente dello spessore orante del loro canto.

Essendo quello della cantoria un ministero liturgico, è plausibile che i cantori indossino adeguato abbigliamento che li configuri come titolari di un ruolo ben preciso nella dinamica della celebrazione, rimanendo tuttavia in contatto con l’assemblea, senza tacitarla ma cercando di trascinarla nel canto. A questo proposito però va detto che anche la cantoria, non essendo fatta di marziani, è parte dell’assemblea; e che la preghiera non è fatta solo di vocalità ma anche di ascolto.

Chi silenziosamente ascolta un canto perché non ce la fa a stargli dietro, non per questo si deve concludere che non abbia pregato (5).


1- Questa dichiarazione avrebbe bisogno di alcune rifiniture: il natale è straordinario in riferimento al Chi è nato, non al come è nato: è nato il Figlio di Dio, ma con un parto perfettamente normale.

2- E’ il martirologio, nel quale sono censiti giorno dopo giorno i santi e gli eventi commemorati nella giornata.

3- Commento al salmo 72,1.

4- Quod aeterna censura damnamus (= da evitarsi con irriducibile condanna) dice san Benedetto ad altro proposito (Regula monasteriorum, cap. VI).

5- Ancora san Benedetto: non in multiloquio sed in puritate cordis … nos exaudiri sciamus (= sappiamoci esauditi non per la verbosità ma per la purezza di cuore), Regula monasteriorum, cap. XX.