Pasqua: resurrezione e audacia
a cura di Mons. Alberto Albertazzi
alberipazzi@gmail.com
Sul mese di maggio, accaparrato tradizionalmente dalla devozione mariana, si spalma il tempo di Pasqua, religiosamente più importante degli stornelli alla Madre di Dio che si cantano volentieri in questo mese.
I libri più letti nella liturgia del tempo pasquale sono gli Atti degli Apostoli nella messa, e l’Apocalisse nella liturgia delle ore: entrambi con attinenze pasquali, seppure di una pasqualità visitata a due differenti livelli. Negli Atti degli Apostoli abbiamo una pasqua ancora coi piedi per terra; nell’Apocalisse invece una pasqua già giunta a destinazione.
Cosa voglio dire? Che negli Atti, oltre alla risurrezione di Gesù, data come premessa all’azione evangelizzante degli Apostoli, non incontriamo altre risurrezioni in senso pasquale. Abbiamo, sì, alcune risurrezioni provvisorie, ossia prive della definitività pasquale che garantisce la interminabilis vita (=vita senza fine), come la chiama Boezio († 524)(1). Sono quelle risurrezioni che mi diverte chiamare “boccate d’aria”, ossia provvisorio ritorno in vita per poi andare a finire sotto terra e rimanerci sino alla risurrezione della carne o di ciò che ne resta (cfr At 9,36-41; 20,5-12). Nell’Apocalisse invece abbiamo il trionfo della risurrezione, come destino definitivo e immutabile dell’umanità: i meritevoli in paradiso, i manigoldi all’inferno (Ap cc. 20-21).
In questo spazio intendo ragionare della risurrezione tipo Atti degli Apostoli, ove «il potente anelito della seconda vita»(2) è annunciato e proclamato dai medesimi solo in riferimento a Cristo. Penso al coraggio che hanno avuto questi messaggeri nello scorrazzare di qua e di là annunciando l’incredibile con la speranza/presunzione di essere presi sul serio! Per noi, preti e affini, è facilissimo parlarne, tanto che i fedeli si stupirebbero se a Pasqua tacessimo l’argomento. Non abbiamo la certezza che tutti i destinatari delle nostre garanzie “anastatiche”(3) le prendano sul serio, ma abbiamo la certezza che non si stupiscono se le sentono planare dal pulpito.
Invece gli Apostoli portavano una novità assoluta e impensabile, soprattutto nel mondo greco-romano. Sarebbe un po’ come se io proclamassi dal pulpito che è risorto Dario Fo! Sarebbe un mistero ancora più buffo del suo Mistero buffo! Gli ebrei avevano da tempo cominciato a orecchiare il concetto di risurrezione. Il profeta Ezechiele (VI sec. a. C.) addirittura offre una macabra scenografia di risurrezione di massa, con ossa scricchiolanti, che cercano di assemblarsi nel rispettivo scheletro (Ez 37,1-14)4. E ai tempi di Gesù si discettava nelle scuole rabbiniche fra risurrezione sì e risurrezione no. Al sì erano favorevoli i farisei, al no i sadducei. Tanto che Paolo, assediato da una scalmanata folla composta degli uni e degli altri, per togliersi d’impiccio, li contrappone con la sola parola “risurrezione”, al suono della quale le due fazioni cominciano a scazzottarsi, al punto che deve intervenire la polizia a sedare la rissa (At 23,6-11).
Inoculare la risurrezione nella cultura greco-romana era più difficile. Il pensiero greco arrivava a ipotizzare una sopravvivenza dell’anima al corpo in una specie di paradiso chiamato iperuranio (=ultra-cielo). Il corpo invece andava in sfacimento inesorabile senza lasciare particolare rimpianto, perché da certe scuole filosofiche era considerato un ingombro.
La difficoltà dell’annuncio pasquale l’ha sperimentata san Paolo da Atene, sprecando un’opportunità irrepetibile. Era stato invitato a tenere una lectio magistralis (=lezione di alto livello) nell’areopago di Atene, una specie di università di quei tempi. Un buon piazzamento della risurrezione in quell’alto consesso avrebbe lubrificato enormemente la diffusione del vangelo. Paolo si prepara diligentemente, piluccando anche qualche citazione dalla letteratura greca(5), e quando arriva ad annunciare quello che non poteva tacere – la risurrezione per l’appunto – si è beccato variegate reazioni: la fede di taluni (Dionigi, Damaris e altri imprecisati); l’educato invito a tornare sull’argomento in altra circostanza: maniera delicata per far capire che la faccenda non interessava. E si è beccato anche sghignazzate in faccia, che irritarono non poco il suscettibile apostolo (At 17,32-34). Rimuginando poi l’insuccesso, lo attribuì in buona parte a eccessivo sforzo culturale, proponendosi per l’innanzi di predicare soltanto Cristo crocifisso (cfr 1 Cor 2,1-2). L’audacia della proclamazione pasquale negli Atti degli Apostoli in greco si chiama parresìa, che vuol dire coraggio, muso duro sino a una virtuosa sfrontatezza.
Nei vari discorsi di Pietro ricorre una congiunzione avversativa di portata strutturale, il “ma”, peraltro usitatissima e ricorrentissima: incalcolabile il numero di volte che la diciamo in una giornata. Sentiamo: «Voi avete ucciso l’autore della vita [Gesù], ma Dio l’ha risuscitato dai morti» (At 3,15). Come dire: l’uomo opera per la morte dai tempi di Caino fino all’Isis e certamente oltre. Dio invece opera per la vita. E la risurrezione è l’unico modo per poter dire che Gesù è salvatore dell’uomo, che non è solo anima ma anche corpo, al quale forse siamo affezionati più che all’anima.
Gesù dunque è salvatore e lo sappiamo benissimo. Peccato che il verbo salvare sia un po’ declassato dal gergo informatico. Quando si vuole trattenere nel computer qualche elemento, bisogna salvarlo; ma lo si salva di una fragile salvezza che non merita neppure il titolo supremo di salvezza con quanto vi si sente di imperituro. Forse più che salvato meriterebbe di essere detto surgelato, ossia garantito finché funziona il computer così come il frigorifero. La vera salvezza è tale solo se definitiva e irreversibile, dunque se è eterna. E così plano ancora una volta sul mio benefico chiodo fisso dell’eternità.
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1 “Interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio” (= possesso simultaneo e perfetto di una vita senza fine) De consolatione philosophiae VI 6.
2 MANZONI, Inni sacri, Pentecoste 19-20.
3 Da anastasis che in greco vuol dire risurrezione.
4 Viene in mente Carducci in Piemonte: “E sotto il volo scricchiolaron l’ossa / sé ricercanti lungo il cimitero / de la fatal penisola”.
5 ARATO (sec. III a. C.), Fenomeni V.