Quinta Domenica di Pasqua – Gv 14,1-12

 
 

–  Gesù tra mistero e rivelazione di Dio –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Per due domeniche siamo con Gesù nell’ultima cena. Giovanni dedica ampio spazio alla circostanza, riproducendovi il più lungo discorso che il Signore abbia tenuto. È la circostanza in cui nasce l’eucaristia, da Giovanni non ricordata, perché ne anticipa lo statuto nella sinagoga di Cafarnao (cap. 6). In suo luogo installa la lavanda dei piedi, nella quale, seppure con marcata diversità gestuale e di apparato, si trovano significati affini. Il vangelo di questa domenica si colloca dopo l’accennato pediluvio.

Il discorso dell’ultima cena è di una ricchezza sorprendente e di un’articolazione agile e logica: nei capitoli 14-16 il Signore parla ai discepoli del Padre, e nel capitolo 17 – noto come grande preghiera sacerdotale di Gesù – parla al Padre dei suoi discepoli, ribaltando dunque la prospettiva. Peccato che quest’ultimo capitolo in pratica non venga mai letto perché situato alla settima domenica, ormai irreversibilmente sfrattata dall’Ascensione che mette in campo altre letture.

Questa domenica Gesù inizia con mosse tranquillizzanti: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me». Che entrambi siano affidabili è fuori discussione. Ciò che frastorna, più che sorprendere semplicemente, è la messa in pari fra Dio e Lui, che anticipa l’avanzata di altre pedine sulla scacchiera. Ma prima bisogna imboccare la strada giusta: «Vado a prepararvi un posto». In quel luogo non compare mai la scritta «tutto esaurito», essendovi molte dimore. L’intervento di Tommaso: «Non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?» fa scattare uno dei solenni «io sono» censiti la scorsa domenica: «Io sono la via, la verità e la vita». È la via unica che conduce al Padre, essendo Gesù inaggirabile (Gv 14,10); è la verità che fa liberi (cfr Gv 8,32); è la vita senza tramonto (cfr Gv 11,25-26).

Filippo trova interessante l’argomento e sbotta: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Sembra quasi dire di “non tirarla troppo per le lunghe: facci vedere ’sto Padre una buona volta, e non se ne parli più”. Interpretazione un po’ rozza e massaiesca. Preferisco quest’altra: “mostraci il Padre e ogni nostro desiderio è appagato”. E Gesù, quasi lasciandosi cadere le braccia, risponde: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?». Insomma: quando si ragiona di Dio, l’uomo è sempre un po’ lento di comprendonio. Ma Gesù mobilita qualche tassello in crescendo del congegno trinitario: «Chi ha visto me, ha visto il Padre». Abbiamo qui ben più che la fotocopia. Siamo ben oltre la sbiadita «immagine e somiglianza» con Dio secondo il progetto originario (cfr Gen 1,26-27). Qui comincia a profilarsi il «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero».

Ma non basta, Gesù si spinge oltre chiedendo un atto di fede che supera il pensabile: «Non credi tu che io sono nel Padre e il Padre è in me?». Non c’è dunque soltanto identità ma persino inabitazione reciproca, che dà consistenza a quel fenomeno trinitario che la teologia latina chiama pittorescamente «circuminsessione» (circuminsessio), ossia una specie di installazione reciproca in beata intimità fra il Padre e il Figlio; mentre la teologia greca usa il termine pericòresis, proveniente da un verbo che sembra trasmettere l’idea di un danzarsi reciprocamente attorno. Etimologia dunque alquanto pittoresca, addirittura con sfumature di amabile frivolezza. Quando di Dio si parla con amore, ci si può lasciare andare a espressioni soavemente improprie; ce lo insegna il Cantico dei Cantici. Lo Spirito Santo non spunta ancora, rimane in lista d’attesa fino alla prossima domenica.

Ma Gesù non è Cartesio e non procede sempre per idee chiare e distinte. Talora gli piace stuzzicare la curiosità dell’interlocutore enunciando qualche enigma, come quello terminale: «In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre». Rispettiamo dunque l’enigma racchiuso in queste parole, senza cercare di stanarne il significato con acrobazie concettuali. Esiste anche una mistica della non-comprensione.