Ricordarsi della morte
Mi arriva qualche sollecitazione a tornare sulla morte almeno nel mese di novembre che inizia con la doppietta Santi/Morti. L’argomento non è facile, perché parlare di ciò che non si è sperimentato, è impresa ardua e si rischia di raccontare delle balle. L’uomo può parlare della luna perché c’è stato. Un’infinità di viventi sono passati per la morte ma non ce ne parlano.
Candidati alla morte. Il titolo che ho dato a questa sbrodolata mortuaria è paradossale, perché la memoria è retroattiva in quanto ci richiama il passato, mentre la morte è futura, di un futuro ignoto ma ineluttabile. Ricordarsi della morte significa ricordarsi che dobbiamo morire, quindi facciamo bene a pensarci. Se si accetta la logica della morte occorre levigare un tantino anche il nostro modo di parlare della vita. Invece di dire che il pupo cresce da appena nato, perché non dire che invecchia da appena nato? Ecco allora un primo scontatissimo assioma: vivere è invecchiare; invecchiare è avvicinarsi alla morte, col piede sull’acceleratore cronologico quanto più ci si avvicina allo stop biografico. Ma per adesso mi fermo ancora sull’aldiquà.
“Gustare la morte”. Essendo un prete non posso fare a meno di una prospettiva di fede. Mi auguro di “gustare” (Marco 9,1) la morte con sufficiente lucidità mentale. Cosa significa “gustare la morte”? A parer mio significa lanciare un’occhiata retrospettiva sulla vita trascorsa, senza provarne alcun rimpianto, se non soltanto per il male fatto e per il bene non fatto! E in primo luogo assaporare al massimo l’ultima comunione eucaristica, il Viatico: la più decisiva, la più intima, la più autentica, la più snobbata di tutte. Il ritrovato eucaristico, realizzato nel corso dell’Ultima Cena, è nato in una cornice di Viatico, perché il giorno dopo Gesù morì. Noi facciamo grandi scenografie per la prima comunione, alla quale nella stragrande maggioranza dei casi ne seguono pochissime altre; e non valorizziamo l’ultima, la più affacciata sull’eternità, se prendiamo sul serio le parole di Gesù nel suo “statuto eucaristico” anticipato a Cafarnao (Giovanni 6,53-57). Il malfamato covid 19 mi ha suggerito l’idea della prima comunione in ordine sparso, avvicinandola alla normalità delle altre successive (se ci saranno). La cosa (mi) sta piacendo.
Malinconica morte sacerdotale. Spero che almeno a noi sacerdoti, che abbiamo celebrato trionfalmente la prima Messa, la Provvidenza conceda il Viatico, a chiusura di un percorso eucaristico che ha ritmato la nostra vicenda sacerdotale. Immagino in questo Viatico una malinconia sconfinata, per le celebrazioni eucaristiche fatte senza la necessaria sintonia spirituale, perché disturbati da preoccupazioni e dall’indomito vagolare fuori strada del nostro pensiero.
La morte e i salmi. Oltre la mortec’è Dio, la cui idea per il filosofo francese Cartesio è innata nella mente umana. L’uomo ha in sé la percezione del divino ancora prima che gli sia trasmessa dall’educazione (di una volta); è parte della sua anatomia spirituale. Quindi nasce già incline all’appuntamento con Dio, che dovrebbe essere cadenzato periodicamente, nell’itinerario biografico. Il codice di riferimento è la Bibbia letta come Parola di Dio, che canalizza la nostra religiosità sino a stabilire con Dio un rapporto familiare che ci consente di chiamarlo Padre. Rapporto che si concretizza soprattutto nel dialogo salmodico, ove l’uomo parla a Dio e Dio parla all’uomo. Ogni salmo è una boccata di eternità che si riversa nel tempo; è la voce di Dio che pone silenzio al fragore umano; è una cullante tranquillità che interrompe il nostro frenetico dimenarci. Insomma: ogni salmo è uno spiraglio a noi aperto su un’atmosfera soprannaturale.
Ma i salmi durano un momento, il tempo della loro recita meditata nella Liturgia delle Ore. Poi tutto riprende come prima. Ma intanto abbiamo avuto un assaggio dell’Aldilà. Quando poi vi si giunge, immagino che quell’incomparabile benessere che in questa vita i Salmi ci hanno fatto piluccare, se tutto va per il meglio, si eternizza: il rapporto con Dio diviene costante e ininterrotto. Non soltanto si percepirà con melodia soprannaturale la voce di Dio, risonante nel tonante salmo 29, ma altresì lo si potrà contemplare, appagando quel desiderio struggente di Mosè (Esodo 33,18) e dell’apostolo Filippo (Giovanni 14,8). Vivere non vorrà più dire invecchiare, ma contemplare l’Assoluto con inalterata vitalità, come ci anticipano san Paolo (1 Corinti 13,12) e san Giovanni (1 Giovanni 3,2).
La placida morte. Se tutto ciò ha senso, ecco perché Gesù non esita a dire che la morte deve essere gustata; e quanto sarebbe meglio se si potesse morire senza presuntuosi accanimenti terapeutici che, nella loro maniacale artificiosità, offuscano il limpido concetto di morte naturale.
Carità e morte. E quanto sarebbe ancora meglio se la Chiesa, un po’ silenziate equità sociale, guerra e pace, società dei consumi e società dei consumati, tornasse a parlarci di queste cose rimettendosi nella sua congenita prospettiva religiosa. Attenuo la bordata: la Chiesa ragiona del sociale in spirito di carità, quindi con una schietta intenzionalità evangelica, ma non senza il rischio di ribaltarne la prospettiva. Intendo dire che il Vangelo non valorizza l’efficacia dell’intervento, che peraltro non è privo di importanza se si vuole ottenere su questo pianeta un diffuso e dignitoso benessere. Questo modulo caritativo mi ha suggerito la formula “carità aziendale” (= Caritas?).
Il Vangelo valorizza invece lo spirito con cui l’intervento è fatto: vedi “obolo della vedova” (Marco 12,41-44). E a morte avvenuta, non saremo giudicati in base all’efficacia dei nostri (eventuali) interventi caritativi, ma in base all’intervento in sé, per il solo fatto di essere stato compiuto o no (Matteo 25,31-46).
Tempo ed eternità sono radicalmente diversi e tra loro non si possono conciliare. Nel tempo si ricerca il benessere temporale, persino snobbato da una visuale eterna; diversamente non leggeremmo “Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Luca 6,20). L’eternità tollera in questa vita la diseguaglianza sociale, perché provvede lei stessa al conguaglio, che sarà effettuato alla morte, con uno sconvolgente ribaltamento delle situazioni.
Morte e Dio. Quanto è diverso dal nostro il pensare di Dio! Lo annota solennemente il profeta Isaia (55,8-9): “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” E Gesù si inviperisce contro Pietro dicendogli: “Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Matteo 16,23). Se Dio pensasse come noi, sarebbe un dio catastroficamente tapino, uno squallido riscaldatore di minestre che non meriterebbe neppure di essere chiamato Dio. Ma per fortuna così non è: Dio non è mai così grande come quando non riusciamo a capirlo! Lasciatemi concludere con Dante:
Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, per giudicar da lungi mille miglia con la veduta corta d’una spanna?.
1. Per non smentirmi riporto parole di Beatrice a Dante, da me sovente cavalcate: “… così queste parole segna a’ vivi / del viver che è un correre alla morte”.
2. Espressione pittoresca e irritante insieme, scolorita in traduzione CEI 2008 con un banale “morire”. Ma nell’originale greco Gesù dice che la morte deve essere “gustata”(verbo gheuomai)!
3. Prime comunioni in tunica bianca, e altri fronzoli.
4. R. DESCARTES (1596-1650) Meditazioni metafisiche, terza meditazione.
5. Non bisogna perdere di vista l’eventualità dell’inferno.
6. Paradiso XIX 79-81.